L’analisi completa dell’istituto, dai presupposti di legittimità ai casi di nullità, dalle forme di impugnazione ai profili processuali
Tra le ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro l’istituto del licenziamento individuale riveste un ruolo di primaria importanza e di maggior peso sia per la sua rilevanza sociale sia per le conseguenze che esso ha sulla sfera personale e patrimoniale del lavoratore licenziato.
§ 1. La cessazione del rapporto di lavoro. Nozioni generali
Come ogni vicenda collegata alla vita umana, anche il rapporto di lavoro ha un suo termine nel tempo, viene cioè ad un certo momento a cessare.
Nel concetto di cessazione si fanno normalmente rientrare tutte le ipotesi alle quali l’ordinamento collega l’effetto estintivo del vincolo contrattuale, che la specificità del rapporto di lavoro, che ruota come ormai noto sull’implicazione della persona del lavoratore e sulla natura di “durata” del vincolo stesso, assoggetta a discipline e modalità tipiche di estinzione dell’obbligazione, anche in deroga alle ordinarie regole dettate per i rapporti obbligatori in generale, e contrattuali in particolare.
Tra queste è indubbio che l’istituto del licenziamento individuale rivesta un ruolo di primaria importanza e di maggior peso sia per la sua rilevanza sociale che per le conseguenze che esso ha sulla sfera personale e patrimoniale del lavoratore licenziato e per questo, e non a caso, attorno ad esso si è andata sviluppando, nel corso del tempo, una fitta trama normativa e giurisprudenziale.
Ma il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, al quale è dedicata la presente indagine, può normalmente estinguersi anche per altre vicende tra loro molto diverse, alle quali va comunque dedicato un cenno.
Una vicenda estintiva del vincolo contrattuale, di natura biologica, è la morte di uno dei due contraenti. Nel caso del lavoratore, trattandosi di prestazione personale infungibile, la morte determina automaticamente l’estinzione del contratto, seppur con la maturazione del diritto all’indennità di preavviso; nel caso di morte del datore di lavoro, si ha estinzione automatica del contratto se si tratta di datore di lavoro persona fisica, priva di qualsiasi organizzazione compreso l’imprenditore individuale, ovvero in tutti quei casi in cui l’intuitus personae rivesta rilievo assorbente (si pensi all’esempio classico di un segretaria di uno studio professionale), mentre negli altri casi il rapporto il lavoro può proseguire con l’organizzazione imprenditoriale, fermo restando che occorrerà tener conto delle regole sulla successione mortis causa.
La cessazione del rapporto di lavoro può, altresì, derivare dalla comune volontà dei contraenti di porre termine al rapporto stesso, ossia per risoluzione consensuale secondo la regola comune del mutuo consenso dettata dall’art. 1372, 1° co., c.c., pienamente legittima se frutto di una genuina volontà di entrambe le parti. Proprio, però, la difficoltà di verificare tale genuinità, e l’utilizzo spesso fraudolento dell’istituto per aggirare gli stringenti limiti posti dalla legislazione al licenziamento individuale del lavoratore, hanno condotto di recente il legislatore a circondarlo di cautele, ribaltando in un primo momento il precedente assetto fondato sul principio di libertà di forme, seppur limitatamente ad un momento logicamente successivo al manifestarsi della volontà di sciogliere il rapporto di lavoro (Legge n. 92/2012) ed in seguito a superarlo definitivamente, con l’introduzione dell’obbligo di forma scritta e di convalida della manifestazione di volontà del lavoratore e della presunzione di radicale invalidità di ogni manifestazione espressa in modo diverso (art. 26 d.lgs. n. 151/2015).
Resta, comunque, indubbio che le vicende estintive del contratto di lavoro più comuni sono riconducibili al recesso di una delle parti contrattuali, atto unilaterale recettizio che assume una diversa denominazione a seconda che a realizzarlo sia il datore di lavoro o il lavoratore: nel primo caso si è in presenza di un licenziamento, mentre nel secondo caso l’atto dà luogo a dimissioni.
La disciplina codicistica del 1942, agli artt. 2118 e 2119, regolamentava il recesso dal contratto di lavoro a tempo indeterminato in maniera unitaria, ponendo sullo stesso piano datore di lavoro e lavoratore e prevedendo espressamente che “ciascun dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, dando il preavviso nei termini e nei modi stabiliti”, ovvero senza preavviso, nella stessa ottica paritaria, sia nel caso di contratto di lavoro a termine che a tempo indeterminato, “qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione anche provvisoria del rapporto”.
Tale assetto normativo è stato completamente superato dalla successiva evoluzione legislativa speciale, che, come vedremo funditus oltre, progressivamente ha circoscritto, limitato e regolato il potere di recesso del datore di lavoro nell’ottica di tutela del contraente debole-lavoratore, divaricando enormemente la disciplina dei licenziamenti da quella delle dimissioni, che, di contro, è rimasta assoggettata alla disciplina codicistica, e quindi al regime della libera recedibilità, sino alla introduzione della Legge n. 92/2012 e della successiva procedimentalizzazione delle dimissioni ad opera del d.lgs. 151/2015.
La decisione di dimettersi, invero, è sempre stata considerata libera ed insindacabile, in virtù del diverso bilanciamento degli interessi in gioco, e validatamente espressa in qualsiasi forma, anche orale o per facta concludentia, pur potendo residuare incertezze in merito all’accertamento della genuinità della volontà di dimettersi e di estinguere il rapporto di lavoro.
Nondimeno, l’abuso dell’istituto delle dimissioni, utilizzate molto spesso in frode per liberarsi di lavoratori sgraditi (si pensi al fenomeno delle c.d. dimissioni in bianco1) ma soprattutto la difficoltà di accertare in concreto la libera e consapevole volontà di dimettersi, ha indotto il legislatore ad introdurre peculiari modalità di validazione della volontà del prestatore, sulla scorta del modello già adottato ed in vigore in ipotesi specifiche e particolari (es. dimissioni rese dalle lavoratrici in gravidanza e lavoratori/trici nei primi anni di vita del bambino).
Dapprima con la procedura di convalida delle dimissioni prevista dalla Legge n. 92/2012, che però presupponeva un propedeutico atto a forma libera che restava sospensivamente condizionato, quanto ai suoi effetti, fino alla successiva convalida scritta effettuata presso le sedi previste, poi con la previsione dell’art. 26 d.lgs. 151/2015, che arretra la soglia di tutela del prestatore già al primo atto di consenso, disponendo che le dimissioni sono valide se rese “esclusivamente con modalità telematiche su appositi moduli resi disponibili dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali”, viene espressamente sancito l’obbligo, a pena di inefficacia, della forma scritta delle dimissioni del prestatore di lavoro subordinato (e delle risoluzioni consensuali), restando esclusa ogni altra diversa forma di espressione della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, che se adottata, soggiace alla presunzione assoluta di radicale invalidità.
§ 2. L’evoluzione della disciplina dei licenziamenti: dal recesso ad nutum alla necessaria giustificazione del licenziamento
Nella sistematica del codice, come si è appena detto, il licenziamento individuale non ha una sua specifica e separata regolamentazione, essendo previsto genericamente come atto di recesso dal contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato dagli artt. 2118 e 2119 c.c., caratterizzato unicamente dalla necessità di dare un congruo preavviso alla parte che subisce il recesso, senza alcun vincolo di forma o di motivazione.
All’epoca si trattava di una disciplina coerente con la riconduzione del contratto di lavoro ad un diritto comune contrassegnato, per tradizione, dalla contrarietà alla stipulazione di vincoli negoziali perpetui, ed in particolare la facoltà concessa ex lege ad entrambi le parti di recedere unilateralmente e liberamente dal contratto costituiva la perpetuazione di un principio liberale sancito dai codici ottocenteschi, che si erano occupati del lavoro subordinato solo per distinguerlo dai rapporti di tipo schiavistico, vietati appunto perché il vincolo di subordinazione era perpetuo e non riconducibile alla volontà negoziale2.
In questo sistema, di grande favore per il creditore di lavoro, normalmente identificato con l’imprenditore, l’interesse alla conservazione del posto di lavoro non aveva ancora assunto alcuna rilevanza, né alcuno di sognava di giudicare le scelte organizzative e le politiche di gestione del personale dell’imprenditore, arbitro assoluto della propria attività economica organizzata; la locazione del lavoro subordinato nell’impianto codicistico non era né un bene né un servizio, ma era regolato come strettamente funzionale all’organizzazione imprenditoriale, destinata dunque ad esser un prius assoluto ed insindacabile.
La drammatica crisi occupazionale del dopoguerra e la necessità di mantenere ad ogni costo i posti di lavoro esistenti, resero evidente la problematica dei licenziamenti ed impellente una sua risoluzione, di cui si fecero carico le parti sociali.
Dopo il blocco dei licenziamenti decretato nel 1945 per salvaguardare i livelli occupazionali dell’epoca, la contrattazione collettiva di massimo livello predispose per la prima volta una disciplina più specifica e ricca di quella codicistica, dando vita alla distinzione tra licenziamenti individuali e licenziamenti per riduzione del personale, i primi da giustificare o indennizzare se privi di giustificazione, i secondi da sottoporre a procedure negoziali con i sindacati.
Con gli accordi interconfederali del 1950, rinnovati nel 1965, applicabili al solo settore industriale, l’autonomia collettiva introdusse per la prima volta il principio della necessaria giustificazione del licenziamento, dando al lavoratore la possibilità di impugnarlo mediante il ricorso a procedure conciliative o arbitrali, all’esito delle quali poteva, in caso di accoglimento della domanda, essere emanata una pronuncia, secondo equità, che imponeva al datore la riassunzione ovvero, in alternativa, il pagamento di una penale risarcitoria commisurata ad un certo numero di mensilità di retribuzione e alle dimensioni dell’impresa.
Pur nel generale riconoscimento della notevole rilevanza dei principi sanciti, erano comunque evidenti i limiti di tale intervento: si trattava di una regolamentazione pattizia ristretta al solo settore industriale, che assicurava nella sostanza una tutela solo di carattere obbligatorio, omettendo una effettiva tutela dell’occupazione.
Sulla spinta di un filone dottrinario costituzionalista, che fondava sugli art. 4 e 41, 2 co., Cost. il superamento della regola del recesso ad nutum, fu sollevata la questione di costituzionalità nei confronti dell’art. 2118 c.c., ritenuto appunto in contrasto con i principi sanciti dalla Carta fondamentale, che fu respinta dalla Corte Costituzionale, che, nondimeno, riconoscendo l’avvenuto superamento ordinamentale della regola della libera recedibilità, sfruttò l’occasione per sollecitare il legislatore ad adeguare la disciplina dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato “al fine intimo di assicurare a tutti la continuità del lavoro e circondi di doverose garanzie e di opportuni temperamenti il caso in cui si rende necessario far luogo a licenziamenti”3.
Tale invito venne accolto di lì a poco con l’entrata in vigore della legge 15 luglio 1966 n. 604, che segnò, per la regolamentazione del licenziamento, la fine dell’epoca della libera recedibilità e il passaggio ad un regime di diritto speciale nel quale il potere illimitato del datore di lavoro di recedere dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato non costituiva più principio generale dell’ordinamento.
I principi che reggono la nuova normativa, infatti, sono assai più limitativi del potere di licenziare del datore di lavoro, dal momento che viene introdotta la forma scritta, a pena di inefficacia, dell’atto estintivo (art. 2, co. 1), la necessaria giustificazione dell’atto con la previsione, accanto alla giusta causa, di un giustificato motivo soggettivo o oggettivo di licenziamento (artt. 1 e 3) da comunicare entro un breve termine su richiesta del lavoratore, e viene spostato sul datore di lavoro, con un disposizione ancora oggi di grande importanza, l’onere processuale di provare la sussistenza della giustificazione del licenziamento (art. 5), sgravando in modo sensibile il lavoratore da un onere processuale difficile da assolvere, data la asimmetria di informazioni tra le due parti riguardo l’organizzazione aziendale.
Con la Legge n. 604/1966 escono anche dalla mera elaborazione teorica i licenziamenti nulli per motivo illecito o discriminatorio, in forza della disposizione dell’art. 4 che qualifica nullo, indipendentemente dalla motivazione adottata, il licenziamento determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato e/o dalla partecipazione ad attività sindacali.
Alla rilevante novità di principio la legge sul giustificato motivo non fece, però, seguire implicazioni coerenti sul versante sanzionatorio. Nel sistema della nuova legge, invero, il licenziamento illegittimo, perché privo di giusta causa o giustificato motivo, resta valido ed efficace, in quanto comunque idoneo a determinare la cessazione del rapporto di lavoro, restando l’ultima parola, in ogni caso, al datore di lavoro al quale, di fronte all’accertamento giudiziale dell’illegittimità del licenziamento, si riconosce la facoltà di scegliere fra la riassunzione del lavoratore entro 3 giorni dalla sentenza o il consolidamento della propria illegittima decisione di porre fine al rapporto di lavoro mediante il versamento di una somma di denaro all’interessato a titolo di risarcimento forfettario del danno.
Un passo avanti, dunque, era stato compiuto senza peraltro spingersi oltre il riconoscimento di una tutela meramente obbligatoria.
§ 2.1 Dalla Statuto dei lavoratori alla Riforma Fornero: dalla stabilità reale alla flexicurity
Una spinta decisiva sulla via del superamento del licenziamento ad nutum fu data dalla Legge n. 300 del 20 maggio 1970 (c.d. Statuto dei Lavoratori) con l’introduzione di un regime di vera e propria stabilità del posto di lavoro, ancorché relativa, perché pur sempre destinata a venir meno di fronte ad una legittima ragione di licenziamento.
Lo Statuto, invero, introdusse nell’ordinamento, con l’art. 18, la c.d tutela o stabilità reale, vale a dire la previsione espressa dell’invalidità del licenziamento privo di giustificazione (che la legge n. 604/1966 non prevedeva) con la sostituzione della sanzione alternativa riassunzione/pagamento di indennità con quella esclusiva della reintegrazione nel posto di lavoro, colpendo in tal modo in maniera radicale il licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo sanzionandolo con la restituzione in forma specifica del bene leso, che appare ora al legislatore meritevole di essere garantito da una forma di tutela reale.
La svolta fu radicale ma destinata a sovrapporsi alla precedente disciplina, dato il suo limitato campo di applicazione, dando avvio ad un intreccio di discipline che ancora oggi caratterizza la materia, rendendola particolarmente complessa. Del nuovo regime di tutela, invero, non potevano, e non possono, beneficiare tutti i lavoratori, ma unicamente i dipendenti di imprese che occupano alle loro dipendenze più di quindici dipendenti in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo, ovvero più di cinque nel caso di imprese agricole.
Siffatta limitazione venne, in parte, superata solo vent’anni più tardi, grazie anche ad un lungo lavorio esegetico giurisprudenziale che permise di metabolizzare una normativa dirompente e complessa come quella statutaria. Con la Legge n. 108/1990 si generalizzò il campo di applicazione della tutela obbligatoria, estendendo il principio della necessaria giustificazione del licenziamento anche in aree nelle quali era ancora consentito al datore di lavoro di recedere ad nutum (dal quale restarono fuori solo i lavoratori domestici, i dirigenti e i lavoratori ultrasessantenni titolari dei requisiti pensionistici) e si dilatò il campo di applicazione della tutela reale a tutte le ipotesi di licenziamento discriminatorio e a tutti i datori di lavoro, con unica esclusione delle organizzazioni di tendenza, che impiegassero complessivamente alle proprie dipendenze più di sessanta lavoratori, anche se occupati in unità produttive con meno di quindici o, se agricole, meno di cinque dipendenti.
Negli anni successivi alla introduzione nell’ordinamento lavoristico della stabilità reale del posto di lavoro, nonostante il riconoscimento da parte degli ordinamenti sovranazionali del diritto a non essere licenziati senza un valido motivo ed a ottenere un’adeguata riparazione in caso di sua violazione alla stregua di principio generale di diritto civile4, sempre più forte si avvertiva, anche in relazione al licenziamento, la pressione delle politiche economiche di flessibilizzazione delle regole, alimentate più o meno a ragione dalle politiche di flexicurity formulate nella Unione Europea a partire dal 2006/2007 e finalizzate a “convincere” le imprese a incrementare l’occupazione.
Sul presupposto che l’art. 18 Stat. Lav. e il regime di tutela da esso garantito avesse effetti negativi sulle dinamiche occupazionali, ed in risposta alle pressanti sollecitazioni formulate dalla Banca Centrale Europea nella famosa lettera inviata all’Italia nell’estate del 2011, in cui espressamente si chiedeva all’Italia “una profonda revisione delle disciplina relativa alle assunzioni ed ai licenziamenti dei lavoratori”, dopo alcune modifiche apportate alla disciplina dei licenziamenti da interventi legislativi settoriali5, venne approvata la legge di riforma n. 92 del 28 giugno 2012 (c.d. Riforma Fornero), che modificò profondamente la materia dei licenziamenti nell’ambito di un più vasto disegno di innovazione complessiva della disciplina del mercato del lavoro nel quale, peraltro, la riforma delle regole sulla reintegrazione nel posto di lavoro svolge un ruolo essenziale.
La finalità dell’intervento legislativo è quella di incrementare la crescita qualitativa e quantitativa dell’occupazione, “favorendo l’instaurazione di rapporti di lavoro più stabili”, con valorizzazione del rapporto a tempo indeterminato come contratto dominante e la riduzione permanente del tasso di disoccupazione. Questi obiettivi, nell’ottica di riforma, possono essere raggiunti riducendo la flessibilità “in entrata” e adeguando contestualmente alle esigenze del mutato contesto di riferimento la disciplina del licenziamento, in particolare riducendo la rigidità del sistema, in tal modo consentendo di superare, altresì, il dualismo tra “garantiti” (protetti dall’art. 18) e tutti gli altri lavoratori, in modo da contribuire alla creazione di un mercato del lavoro dinamico e inclusivo.
Perno della intera riforma, dunque, è la modifica sostanziale del testo dell’art. 18 Stat. Lav., nella cui nuova versione, di lettura estremamente complessa, il ruolo della reintegrazione ne esce depotenziato, non più rimedio esclusivo alla illegittimità del licenziamento nelle aree di sua applicazione, ma rimedio alternativo a quello risarcitorio/indennitario, in un’ottica di monetizzazione del licenziamento.
La riforma, in particolare, senza incidere sulle fattispecie di giusta causa e giustificato motivo (soggettivo e oggettivo), interviene sulle conseguenze del licenziamento illegittimo, frantumando la precedente tutela apprestata dall’art. 18 in quattro diverse tipologie: la reintegratoria piena, che opera quale che sia il numero dei dipendenti nei casi di licenziamento discriminatorio e nullo (art. 18, co 1); la reintegratoria debole, che opera nei casi in cui l’illegittimità determina sempre la reintegrazione e il risarcimento del danno ma entro un tetto risarcitorio (art. 18. Co. 4); la indennitaria forte e debole, che operano nelle fattispecie in cui la tutela reale diventa obbligatoria, perché il recesso ha sempre effetto interruttivo del rapporto, e la sanzione è una indennità economica onnicomprensiva definita entro limiti minimi e massimi (art. 18, co. 5), anche in relazione a violazioni formali e procedurali (art. 18, co. 6).
A seguito delle modifiche introdotte dalla Legge di riforma del 2012, il sistema di tutela contro i licenziamenti illegittimi appare frastagliato e particolarmente complesso, caratterizzato da varie modalità e aree di tutela, in cui i diversi insiemi di regole e i rispettivi ambiti di applicazione si sovrappongono e si intrecciano tra di loro.
§ 2.2 La marginalizzazione della stabilità reale: il d.lgs. n. 23/2015 e la nuova disciplina del contratto di lavoro a tutele crescenti
Il ridimensionamento della tutela reale per i licenziamenti illegittimi diversi da quelli discriminatori (o ad essi equiparati) – previsto dalla riforma Fornero – risulta confermato ed intensificato dalla più recente disciplina in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti (d.lgs. n. 23/2015), applicabile ai tutti e solo i lavoratori “con qualifica di quadri, operai e impiegati assunti dalla data di entrata in vigore del presente decreto”, ovvero dal 7 marzo 2015, e quindi, destinato progressivamente a sostituire la vecchia disposizione statutaria.
Con la previsione del contratto a tutele crescenti – che non è un diverso contratto ma una nuova disciplina delle conseguenze del licenziamento illegittimo – il Legislatore ha completato l’inversione di prospettiva avviata con la riforma del 2012 dell’art. 18 Stat. Lav., rendendo la tutela indennitaria la regola standard comune a tutti, a cui fanno eccezione specifiche e circoscritte ipotesi di operatività della tutela reale piena, in tal modo determinando un generale abbassamento di tutele, rispetto all’assetto precedente, per il prestatore di lavoro.
Diversamente dalla precedente riforma, che lasciava in vigore la disciplina di cui alla legge n. 604/1966 e la summa divisio di tutele rappresentata dal criterio dimensionale dell’impresa, la nuova disciplina interessa tutti i datori di lavoro, a prescindere dal dato dimensionale e numerico ed anche a prescindere dall’oggetto dell’attività esercitata, interessando anche le Organizzazioni di tendenza.
In conclusione, sintetizzando quanto si avrà modo di approfondire oltre, dopo l’ultimo intervento legislativo riformatore del 2015 è possibile ad oggi distinguere quattro diverse aree di tutela contro i licenziamenti illegittimi:
– una prima area di tutela (o stabilità) reale, nella quale l’invalidazione del licenziamento da luogo al diritto del lavoratore alla reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento del danno;
– una seconda area di tutela (o stabilità) indennitaria, nella quale il licenziamento ingiustificato è illecito ma valido, perché estingue il rapporto di lavoro ma il lavoratore ha diritto a un’indennità risarcitoria di entità variabile;
– una terza area di tutela obbligatoria (ex Legge n. 604/1966), in cui trova applicazione la dicotomia riassunzione/risarcimento del danno;
– una quarta area di licenziamento ad nutum, residuale in cui trova ancora applicazione la disciplina di cui all’art. 2118 c.c.
L’attuale vigenza di diversi regimi giuridici dei licenziamenti individuali suggerisce di partire dall’esame di quell’insieme di regole che, salvo qualche necessaria precisazione, possono essere considerate comuni a tutti i licenziamenti individuali rientranti nell’ambito di applicazione delle diverse discipline limitative del potere di licenziamento.
§ 3. I presupposti di legittimità del licenziamento individuale
Il licenziamento, fatta salva la residuale area di rilevanza del licenziamento ad nutum, è sottoposto a rigidi vincoli formali e sostanziali, che ne costituiscono appunto i presupposti di legittimità. Occorre, infatti, che il licenziamento venga irrogato secondo ben precise modalità a garanzia della posizione del lavoratore.
3.1. La forma del licenziamento
Il licenziamento è innanzitutto atto recettizio a forma scritta ad substantiam. Secondo quanto previsto dall’art. 2, co. 1 e 2, Legge n. 604/66, come modificato dalla Legge n. 92/2012, il datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, indipendentemente dal contesto dimensionale, deve comunicare per iscritto al prestatore di lavoro – compresi i dirigenti – l’atto di recesso, contestualmente ai motivi che lo determinano, pena l’inefficacia del licenziamento stesso6.
L’ambito di applicazione della previsione normativa è molto ampio ma non generale, in quanto restano fuori tutte le ipotesi di recesso soggette alla disciplina del recesso ad nutum di cui all’art. 2118 c.c., e, dunque, i lavoratori domestici, i lavoratori in prova, i lavoratori ultrasessantenni in possesso dei requisiti di pensionabilità (semprechè non abbiano optato per la prosecuzione del rapporto), nonché, ai sensi dell’art. 4 Legge n. 91/1981, i lavoratori subordinati sportivi, nelle quali il licenziamento potrà essere validamente comunicato oralmente e senza motivazione.
Essendo un atto recettizio, il licenziamento produce i suoi effetti dal momento in cui il destinatario ne viene a conoscenza, circostanza che si intende avverata anche nel caso in cui il lavoratore rifiuti di ricevere l’atto che gli venga consegnato, operando a tal riguardo la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c..
In ordine alla modalità di tale comunicazione, non prescrivendo la norma alcuna forma particolare di consegna dell’atto, è sufficiente che lo stesso giunga a conoscenza del destinatario, essendo ammissibili a tal fine anche forme sostitutive della usuale comunicazione scritta7.
La legge prescrive la forma scritta ad substantiam, intesa quale forma vincolata che, pur non riferendosi direttamente alla dichiarazione bensì alla comunicazione, è elemento essenziale dell’atto di recesso. In altre parole, la comunicazione per iscritto del licenziamento è un elemento della struttura del negozio risolutivo, per cui, qualora non risulti rispettata la prescritta modalità di comunicazione, la dichiarazione negoziale non sarà efficace nei confronti del lavoratore destinatario. Tale requisito risponde all’esigenza, secondo la Corte costituzionale, di tutelare l’essenziale interesse della parte più debole del rapporto “a conoscere ed a impugnare l’atto nel termine decorrente dalla data di notifica”8.
Sul piano sanzionatorio, il licenziamento privo della forma scritta, o di mancata comunicazione per iscritto dei motivi del licenziamento, è definito dalla legge inefficace, espressione generica, da molti ritenuta equivoca, che ha dato luogo ad un ampio dibattito in dottrina e giurisprudenza.
L’opinione prevalente, tuttavia, ritiene che il legislatore abbia accolto un concetto ampio di inefficacia, tale per cui, essendo la forma scritta elemento essenziale dell’atto di recesso, non di efficacia in senso stretto si tratta, bensì di vera e propria nullità, e pertanto, il licenziamento che non rispetti il vincolo di forma, in quanto privo di uno dei requisiti indispensabili dell’atto – la forma appunto -, resta improduttivo di effetti al pari di un atto nullo.
La Legge n. 92/2012, così come il d.lgs. n. 23/2015, distinguono i regimi di tutela applicabili a seconda che il vizio attenga alla carenza assoluta di forma scritta del licenziamento ovvero al solo requisito di motivazione (o di procedura).
Prima delle riforme del 2012 e del 2015, l’omessa o incompleta motivazione dei motivi era stata considerata non meno grave della mancata comunicazione per iscritto del licenziamento, sul presupposto che la comunicazione dei motivi risponde ad esigenze di certezza ed immutabilità della giustificazione del licenziamento, precludendo al datore di lavoro la possibilità di far valere in giudizio fatti nuovi o diversi da quelli contestati o ragioni diverse da quelle adottate nella comunicazione del provvedimento al lavoratore, nonché a circoscrivere l’ambito di difesa del lavoratore.
Il Legislatore delle riforme si è però discostato da tale consolidato orientamento, distinguendo nettamente il vizio di forma consistente nella mancata comunicazione scritta del licenziamento (licenziamento inefficace) dal vizio formale consistente nella omessa comunicazione dei motivi (licenziamento efficace).
Il licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma orale resta, per entrambi i provvedimenti di riforma, assoggettato alla medesima disciplina del licenziamento nullo o discriminatorio, quindi soggetto alla sanzione della reintegrazione unitamente al risarcimento del danno ragguagliato a più di cinque mensilità di retribuzione (art. 18, 1 Co., Stat. Lav. e art. 2, co. 2, d.lgs. n. 23/2015).
Diverse, invece, le conseguenze per gli ulteriori vizi di forma (e di procedura) del licenziamento.
Nei contratti di lavoro a tempo indeterminato, con assunzione precedente al 7 marzo 2015, rientranti nell’ambito dimensionale di applicazione dell’art. 18 Stat. Lav., nell’ipotesi in cui il licenziamento sia dichiarato inefficace per omessa comunicazione della motivazione (o per vizio procedurale), il licenziamento produce l’effetto di risolvere il rapporto e la reintegrazione viene sostituita da un’indennità risarcitoria onnicomprensiva, determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa, tra un minimo di sei ed un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, (salvo che sia contestata anche la legittimità del licenziamento) (art. 18, co. 6).
Analogamente, nella novella del 2015, per i lavoratori assunti con contratto a tutele crescenti dopo il 7 marzo 2015, è previsto che ove il licenziamento sia intimato in violazione del requisito della motivazione ( o per vizio procedurale), “il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento” e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità, non assoggettata alla contribuzione previdenziale, di importo pari ad una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, compresa tra un minimo di due ed un massimo di dodici mensilità, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti la sussistenza dei presupposti per l’applicazione delle altre tutele più forti (reintegra piena, reintegra con indennità limitata, tutela indennitaria piena) (art. 4).
Quanto al licenziamento viziato nella forma attratta nell’area di stabilità obbligatoria, sotto la vigenza della Legge n. 604/1966 e fino alla riforma Fornero, nell’ipotesi di vizio di forma non trovava applicazione l’art. 18 Stat. Lav., bensì il regime di inefficacia del diritto comune, con la conseguente improduttività di effetti giuridici del licenziamento e il diritto del lavoratore ad ottenere il risarcimento del danno, da determinarsi sulla base delle regole generali sull’inadempimento delle obbligazioni contrattuali e, di massima, commisurata alle mancate retribuzioni percepite fino al concreto ripristino del rapporto di lavoro.
Per effetto delle innovazioni introdotte dalla Legge n. 92/2012, che, come visto, ha differenziato la disciplina della mancanza di forma tout court dalla mera violazione del requisito di motivazione, nella area della tutela obbligatoria si applica nel caso di licenziamento orale la tutela reintegratoria piena (non più la tutela di diritto comune), mentre nel secondo caso, la violazione del requisito di motivazione risultava essere sanzionata più gravemente nella area di stabilità obbligatoria che nell’area di stabilità reale, dacchè era prevista l’inefficacia del licenziamento e la sanzione della tutela reale della nullità di diritto comune, a fronte della semplice tutela indennitaria compresa tra le sei e le dodici mensilità prevista dalla norma statutaria, creando così un’inversione di trattamento di dubbia costituzionalità.
Sul punto è, però, intervenuta di recente la giurisprudenza di legittimità che ha corretto la previsione legislativa, stabilendo che, nel regime di tutela obbligatoria, in caso di violazione del requisito d motivazione, trova applicazione il regime dell’art. 8 della Legge n. 604/1966, ovverosia l’efficacia del licenziamento e l’obbligo di pagamento dell’indennità forfettaria, “in virtù di un’interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata del nuovo art. 18 Stat. Lav.”9.
Siffatto divario è stato parzialmente colmato dalla nuova disciplina del contratto a tutele crescenti che da un lato, per gli assunti a partire dal 7 marzo 2015, per quanto concerne il vizio della mancanza di forma scritta del licenziamento nell’area di stabilità obbligatoria ha mantenuta la sanzione della tutela reintegratoria piena, mentre per il vizio minore della carenza del requisito di motivazione (e della procedura di cui all’art. 7 Stat. Lav.) stabilisce una disciplina specifica per l’area della piccola impresa, consistente nel dimezzamento della tutela indennitaria prevista per le imprese di maggiori dimensioni entro un tetto massimo di sei mensilità, e non più l’applicazione della tutela reale di diritto comune.
Tra i vizi di forma del licenziamento rientrano, altresì, la violazione della procedura di cui all’art. 7 Stat. Lav. per i licenziamenti disciplinari, ossia il licenziamento volto a sanzionare condotte colpose del lavoratore, e la violazione della nuova procedura prevista dall’art. 7 Legge n. 604/1966 (tentativo obbligatorio di conciliazione), come modificato dalla riforma del 2012, nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo disposto dal datore di lavoro avente i requisiti dimensionali per l’applicazione dell’art. 18 Stat. Lav.
La qualificazione del licenziamento per colpa (giusta causa e giustificato motivo soggettivo) come licenziamento disciplinare è ad oggi ormai pacifica, anche per la espressa conferma in tal senso ad opera della riforma del 2012 (art. 1, co. 40), ma ha alle sue spalle una vicenda interpretativa complessa, in cui si sono susseguite e confrontati orientamenti giurisprudenziali contrapposti, superati dall’intervento della Corte costituzionale e da successive puntualizzazioni della Corte di Cassazione, che hanno affermato la natura ontologicamente disciplinare del licenziamento per colpa e l’applicabilità ad esso delle garanzie procedurali dei primi 3 commi dell’art. 7 Stat. Lav., in ragione della sostanziale omogeneità, sul piano della potenziale idoneità lesiva, tra sanzione e licenziamento disciplinare10.
Il licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo fondato sulla violazione da parte del lavoratore degli obblighi scaturenti dal rapporto rimane, pertanto, assoggettato alle garanzie procedurale di cui all’art. 7 Stat. Lav. (previa contestazione scritta dell’addebito, diritto di difesa del lavoratore in qualsiasi forma, termine minimo di cinque giorni tra la contestazione e l’irrogazione del licenziamento) perché ha natura ontologicamente disciplinare, la cui inosservanza rende l’atto di recesso viziato sotto il profilo formale e da luogo alle medesime conseguenze sanzionatorie previste per la violazione di forma della mancanza di motivazione del licenziamento, ovverosia licenziamento efficace e tutela indennitaria ridotta tra un minimo di sei ed un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per le aziende di maggiori dimensioni rientranti nell’area di operatività dell’art. 18 Stat. Lav., mentre per i lavoratori assunti con il contratto a tutele crescenti (dopo il 7 manzo 2015) una tutela indennitaria ridotta ad una mensilità per ogni anno di servizio tra un minimo di due ed un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione utile per il calcolo del TFR.
Quanto ai datori che si collocano nell’area di applicazione del regime di stabilità obbligatoria (Legge n. 604/1966), la giurisprudenza, dopo una lunga serie di contrasti interpretativi, è giunta a ritenere che il licenziamento disciplinare che violi le garanzie procedurali non è affetto da nullità, ma produce gli effetti propri del licenziamento illegittimo per carenza dei presupposti giustificativi ai sensi dell’art. 8 Legge n. 604/1966 (riassunzione o il pagamento di un’indennità compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto) ed ora, per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, ai sensi dell’art. 9, co. 1, d.lgs. n. 23/2015 (estinzione del rapporto di lavoro e pagamento di un’indennità non superiore alle sei mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR).
Un ulteriore obbligo di natura procedurale è stato, inoltre, introdotto dalla riforma del 2012 in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, consistente nel preventivo esperimento di un tentativo di conciliazione in sede amministrativa, davanti alla Direzione territoriale del lavoro.
Sostituendo integralmente l’art. 7 Legge n. 604/1966, la nuova disciplina impone al datore di lavoro avente i requisiti dimensionali richiesti per l’applicazione dell’art. 18 Stat. Lav. di far precedere l’intimazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo da una comunicazione con cui dichiara l’intenzione di procedere al licenziamento e i motivi posti a base dello stesso, nonché le eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore interessato. La comunicazione apre una procedura, che si sviluppa innanzi alla Commissione provinciale di conciliazione, finalizzata a esaminare soluzioni alternative al recesso entro termini piuttosto brevi (venti giorni dalla convocazione della DTL), i cui esiti sono valutabili in una eventuale successiva fase giudiziale.
La sua violazione vizia l’atto di recesso nella forma e rende applicabile al licenziamento per giustificato motivo oggettivo eventualmente irrogato il regime di tutela indennitaria c.d. ridotta di cui all’art. 18, co. 6, Sta. Lav., ovverosia la condanna del datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa, tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
La descritta procedura è stata, infine, abrogata dal d.lgs. n. 23/2015 e non trova, quindi, più applicazione nei confronti di lavoratori licenziati per motivi oggettivi assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato successivamente alla data del 7 marzo 2015.
Nell’area di libera recedibilità, ancora, va detto che, a seguito della pronuncia della Corte costituzionale n. 427/1989 che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 7, commi 2 e 3 della Legge n. 300/1970 nella parte in cui esclude la loro applicabilità al licenziamento irrogato per motivi disciplinari nell’area del recesso ad nutum, è controversa quale sia la sanzione applicabile alla violazione di forma, se l’inefficacia del licenziamento con prosecuzione del rapporto di lavoro ovvero l’efficacia del licenziamento e la sola corresponsione dell’indennità di preavviso.
A lungo controversa e dibattuta, in dottrina e in giurisprudenza, da ultimo, è stata l’applicabilità delle garanzie procedurali dell’art. 7 Stat. Lav. al licenziamento disciplinare del dirigente, assoggettato ex lege al regime di libera recedibilità.
Recependo le critiche di una parte della dottrina e di un filone giurisprudenziale, la Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno risolto la questione nel senso della generale estensione ed applicabilità delle garanzie procedurali dell’art. 7 Stat. Lav. a tutti i dirigenti, a prescindere dalla specifica collocazione gerarchica nell’organizzazione aziendale.
Il mancato rispetto di queste comporta l’applicazione delle conseguenze previste per il licenziamento privo di giustificazione, pertanto il rapporto di lavoro cesserà a far data dal licenziamento con l’obbligo per il datore di lavoro di versare, oltre l’indennità di mancato preavviso, l’indennità aggiuntiva prevista dal contratto collettivo per l’ipotesi di licenziamento ingiustificato.
3.2 La giustificazione sostanziale del licenziamento
Dal quadro dei regimi giuridici dei licenziamenti individuali brevemente ricapitolato, emerge, accanto alla coesistenza di regimi differenziati di tutela dei lavoratori, una generalizzazione larga ma ancora incompleta della regola della giustificazione del licenziamento, introdotta, come visto, dalla legislazione speciale di emergenza dietro aperto invito della Corte costituzionale ed elevato a presupposto del legittimo esercizio del potere di licenziamento da parte del datore di lavoro.
Il giustificato motivo costituisce, invero, la novità introdotta dalla Legge n. 604/1966 al fine di limitare il potere di recesso del datore di lavoro, ancorandolo alla necessaria sussistenza di motivazioni legate ad un “notevole inadempimento degli obblighi contrattuali” nel caso di giustificato motivo soggettivo, ovvero a “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento dell’impresa”, in quello che viene definito giustificato motivo oggettivo di licenziamento (art. 3).
Le previsioni sul giustificato motivo non hanno subito modificazioni ad opera della legge n. 108/1990, se non in ordine all’ampliamento della loro sfera di applicazione, e neppure ad opera della legge n. 92/2012 (art.1, commi 37ss.); quest’ultima legge ha introdotto, tuttavia, a fini sanzionatori, e limitatamente all’ambito di applicazione dell’articolo 18 Stat. Lav., una sorta di “graduazione” delle giustificazioni, distinguendo a seconda che la giustificazione addotta dal datore di lavoro sia sostanzialmente infondata o sia soltanto non adeguata o sufficiente a giustificare il licenziamento.
La disciplina dei licenziamenti individuali nel contratto a tutele crescenti ha poi cancellato quasi interamente le graduazioni introdotte dalla legge di riforma del 2012, riportando, nella sostanza, per i nuovi assunti le giustificazioni all’origine.
3.2.1. Il concetto di giusta causa di licenziamento
La clausola generale della giusta causa, già prevista nel Codice civile del 1942 all’art. 2119 nel quale assolveva alla funzione di consentire il recesso senza preavviso a causa di eventi particolarmente traumatici che incidevano in maniera irreversibile sul rapporto di lavoro, nel nuovo sistema del licenziamento giustificato, pur mantenendo la funzione di esonerare dal preavviso, diviene uno dei presupposti di validità del licenziamento che va ad affiancarsi al giustificato motivo.
Secondo la norma del codice, costituisce giusta causa di recesso dal rapporto di lavoro, prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato “una causa che non consenta la prosecuzione anche provvisoria del rapporto di lavoro”.
Elemento costitutivo della giusta causa non previsto dalla legge, ma dedotto dalla giurisprudenza dalla mancanza di preavviso, è l’immediatezza degli effetti del provvedimento espulsivo (c.d. licenziamento in tronco), che resta comunque compatibile con un congruo intervallo di tempo necessario all’accertamento dei fatti contestati al lavoratore.
Fin dalle origini della riflessione sul contratto di lavoro, il fondamento del potere di recesso per giusta causa viene ricondotto alla natura fiduciaria del rapporto di lavoro, quale presupposto che impedirebbe la prosecuzione anche provvisoria della relazione giuridica, in presenza di fatti di particolare gravità e tali da incidere irreversibilmente sulle aspettative della parte recedente. Il concetto di fiducia inizialmente accolto dalla giurisprudenza dominante qualificava giusta causa di licenziamento condotte del lavoratore anche estranee rispetto al rapporto ma idonee a far venir meno quella fiducia, intensa in senso soggettivo, che costituisce il presupposto essenziale della collaborazione e, quindi, della sussistenza del rapporto di lavoro subordinato.
Questo orientamento, sottoposto a serrata critica sin dal suo esordio, è stato rielaborato dalla dottrina, che ha accolto, di contro, un concetto di giusta causa guardando non alla fiducia in senso soggettivo, bensì alla ripercussione che l’inadempimento ha sulla fiducia oggettiva, ovverosia sull’aspettativa del datore di lavoro circa l’esattezza delle future prestazioni lavorative11; questa rilettura, che restringe e precisa la nozione di giusta causa riportandola all’interno della logica comune dei contratti di durata, può, ad oggi, ritenersi pacificamente accolta anche dalla giurisprudenza dominante12.
Una delle più dibattute questioni intorno al concetto di giusta causa è quella della riconducibilità o meno ad essa del solo inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore, ovvero della rilevanza come giusta causa di licenziamento anche di atti e comportamenti estranei all’esecuzione del rapporto di lavoro e non riconducibili alla violazione di obblighi derivanti dal vincolo contrattuale.
Una limitata rilevanza a comportamenti estranei alla sfera contrattuale viene riconosciuta dalla giurisprudenza prevalente, la quale, evitando di delineare rigidi confini in ordine alla rilevanza di condotte o atti estranei alle obbligazioni lavorative, insiste sulla necessità della valutazione complessiva ed in concreto delle singole fattispecie. Ai fini della sussistenza della giusta causa, questa parte della giurisprudenza sostiene che non è sufficiente una valutazione in astratto delle condotte considerate, ma occorre verificare – tenuto conto della natura e qualità del singolo rapporto, della posizione delle parti, delle mansioni espletate, del particolare grado di fiducia connesso alla struttura dell’impresa o alla qualifica rivestita, nonché dell’intensità dell’elemento intenzionale e di quello colposo – la loro idoneità ad influire, per il futuro, sulla capacità di adempimento del prestatore di lavoro13.
Di opinione contraria buona parte della dottrina (alla quale fa talora riferimento la giurisprudenza di merito), che desume, di contro, l’esclusione dalla nozione di giusta causa di ogni comportamento estraneo al contratto di lavoro dal combinato disposto degli artt. 2119 c.c. e 3 Legge n. 604/1966, ove il legislatore ha espressamente assegnato rilevanza, ai fini di licenziamento con preavviso, al solo inadempimento degli obblighi contrattuali.
Quale che sia la concezione preferibile, la giusta causa consiste comunque in un fatto di tale gravità, valutata non solo sul piano quantitativo ma anche qualitativo nel confronto con il giustificato motivo soggettivo, da imporre l’immediata estromissione del lavoratore, ravvisabile molto spesso non dal solo atto o dalla sola condotta assunta dal prestatore di lavoro, bensì da un insieme di condotte illecite successive che considerate complessivamente assumono quel connotato di gravità e di lesione del vincolo fiduciario oggettivo di intensità tale da legittimare l’esonero del preavviso14.
Scarsamente trattata dalla dottrina, inoltre, è la questione della rilevanza del danno subito dal datore di lavoro nella qualificazione dell’inadempimento del lavoratore, che talora emerge nella casistica giudiziale. La giurisprudenza è orientata nel senso che, ai fini della qualificazione di un comportamento del lavoratore come giusta causa di licenziamento, è irrilevante il danno che dal comportamento possa derivare o sia effettivamente derivato al datore di lavoro, in primo luogo perché il requisito della fiducia può venir meno in relazione a comportamenti del lavoratore che non abbiano di per sé prodotto al datore di lavoro un danno di particolare entità, e poi perché l’idoneità del comportamento del lavoratore a recare pregiudizio all’interesse del datore di lavoro entra, insieme ad altri elementi, nella valutazione complessiva concreta della gravità della violazione degli obblighi di diligenza ed obbedienza.
Questione di rilievo, infine, è quello attinente all’elencazione da parte dei contratti collettivi dei fatti definibili in concreto come giusta causa e giustificato motivo soggettivo, che dottrina e giurisprudenza hanno da sempre risolto negando vincolatività a simili elencazioni sull’assunto che, per quanto provviste di una qualche attendibilità in ragione della loro provenienza dalle parti sociali, non potrebbero precludere al giudice la possibilità di indagare sulla reale entità e gravità della mancanza nel caso specifico ai fini dell’eventuale prosecuzioni del rapporto di lavoro.
Sul punto ha, tuttavia, statuito diversamente il Legislatore (art. 30, co. 3, Legge n. 183/2010), prevedendo che il giudice nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento sia vincolato alle tipizzazioni della giusta causa o del giustificato motivo presenti nei contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi o nei contratti individuali certificati da una delle commissioni di certificazioni previste dalla legge.
3.2.2. Il giustificato motivo soggettivo di licenziamento
Oltre che per giusta causa (senza preavviso), il datore di lavoro può recedere dal contratto di lavoro subordinato con preavviso in presenza di un “notevole inadempimento degli obblighi contrattuali” (art. 3 Legge. 604/66).
L’area dell’inadempimento rilevante comprende, dunque, tutti e solo gli obblighi nascenti dal contratto di lavoro (nonché dalla contrattazione collettiva e dal regolamento d’azienda): non soltanto l’obbligazione lavorativa, ma anche gli ulteriori obblighi gravanti sul lavoratore, segnatamente quelli connessi all’obbligo di fedeltà, gli obblighi preparatori all’adempimento, dovere di osservare le istruzioni del datore di lavoro, di non divulgazione di notizie aziendali e di non concorrenza, letti attraverso i parametri di valutazione della diligenza, correttezza e buona fede.
Per poter legittimare l’esercizio del potere di recesso, ovvero per poter rilevare come giustificato motivo soggettivo di licenziamento, l’inadempimento del lavoratore deve essere notevole; diversamente, in luogo di un provvedimento espulsivo, sarebbe ammissibile, in base al principio di proporzionalità fra infrazione e sanzione, soltanto l’adozione di una sanzione conservativa.
La previsione del giustificato motivo soggettivo ha posto ovviamente subito il problema dei rapporti fra questo e la giusta causa. Ci si è chiesti in sostanza se fra le due nozioni sussistessero delle differenze di natura qualitativa o se il discrimine passasse attraverso una valutazione quantitativa della gravità del comportamento del lavoratore, suscettibile solo nel caso di giusta causa di non consentire la prosecuzione anche provvisoria del rapporto.
E’ prevalsa, in dottrina e giurisprudenza, la seconda opinione, secondo cui il criterio di identificazione del carattere notevole dell’inadempimento in questione sta nel grado di colpa del lavoratore, per cui mentre il comportamento caratterizzato da colpa gravissima o dolo integrerebbe gli estremi della giusta causa, quello caratterizzato da colpa grave integrerebbe il giustificato motivo soggettivo.
Tra le mancanze più rilevanti che possono condurre al licenziamento per giustificato motivo soggettivo, la giurisprudenza annovera lo scarso rendimento del lavoratore, sebbene solo nel caso in cui integri gli estremi del notevole inadempimento.
Posto che lo scarso rendimento può dipendere anche da altri fattori o circostanze inerenti l’organizzazione aziendale, la qualificazione in termini di notevole inadempimento dipende, in buona sostanza, dall’imputabilità dello scarso rendimento a negligenza o imperizia del lavoratore, la cui prestazione risulti inferiore al risultato atteso ed esigibile, tenuto conto del grado di diligenza normalmente richiesta per la prestazione lavorativa e di quello effettivamente usato dal lavoratore, nonché della sua incidenza nell’organizzazione complessiva del lavoro nell’impresa e dei fattori socio ambientali15.
Rientra, infine, nella classica problematica del giustificato motivo soggettivo la questione della conversione di un licenziamento motivato da giusta causa, senza preavviso, in licenziamento per giustificato motivo soggettivo, che viene risolta, in realtà, in una diversa qualificazione della situazione di fatto che è stata posta a fondamento dell’atto espulsivo. In sostanza, il giudice ove ritenga il fatto addebitato al lavoratore non sufficiente ad integrare una giusta causa di licenziamento, ma sufficiente ad integrare invece un giustificato motivo soggettivo, può convertire anche d’ufficio il licenziamento, attribuendo al lavoratore il diritto all’indennità sostitutiva del preavviso.
3.2.3 Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento
Oltre che per ragioni collocabili nella sfera dell’inadempimento del lavoratore, il potere di licenziamento può anche essere esercitato nell’interesse dell’impresa, rectius dell’imprenditore.
A tale interesse allude la seconda parte dell’art. 3 Legge n. 604/1966 quando ammette il licenziamento per “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”, che gli interpreti hanno ribattezzato giustificato motivo oggettivo, nella quale rientrano tutte le ipotesi n cui il licenziamento individuale del lavoratore non sia giustificato da una condotta colpevole di quest’ultimo.
Di talchè, il giustificato motivo oggettivo risulta comprendere due tipologie di fattispecie: una radicata nelle ragioni inerenti l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa (c.d. giustificato motivo economico o per ragioni d’impresa), la seconda rappresentata da fattispecie di notevole inadempimento che non vengono sanzionate dal datore per la colpevolezza del prestatore, bensì unicamente perché implicano per questi l’impossibilità oggettiva di adempiere esattamente le proprie obbligazioni (impossibilità sopravvenuta totale e/o parziale della prestazione lavorativa), fermo in ambedue le fattispecie il rispetto dell’obbligo del preavviso.
La formula delle ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa riguarda profili non lavoristici dell’impresa, quali ad esempio riconversione produttiva e tecnologica, riduzione di commesse, perdite di bilancio, come anche profili più strettamente concernenti le modalità di produrre, cioè a dire l’organizzazione del lavoro. Nel contrasto tra l’interesse del lavoratore alla conservazione del posto e quello dell’impresa ad espellere unità lavorative realmente non più funzionali alle proprie esigenze organizzative ed economiche, è il secondo a prevalere a condizione che tali esigenze siano richiamate nella motivazione del licenziamento e siano effettive, e sussista uno stretto nesso di causalità tra le dette esigenze e il licenziamento.
Molto controversa, invece, è la soluzione dei casi che hanno ad oggetto non le vicende dell’azienda (scelte produttive e organizzative, andamento del mercato, etc..,) ma vicende che riguardano il lavoratore, ovvero i casi di impossibilità sopravvenuta temporale o parziale della prestazione lavorativa che, tuttavia, non costituiscono inadempimenti a lui imputabili per colpa (si pensi alla carcerazione preventiva o all’inidoneità psico-fisica sopravvenuta).
In punto si registrano, invero, due diversi orientamenti contrapposti: un primo orientamento, avallato dalla dottrina prevalente, fa rientrare nella nozione di giustificato motivo oggettivo soltanto vicende e/o eventi che conseguono a scelte del datore di lavoro, non riferibili in alcun modo a vicende della sfera personale del prestatore, ed un diverso orientamento, diffuso soprattutto in giurisprudenza, attrae, invece, nell’area del giustificato motivo oggettivo tutte le vicende e tutti gli eventi che, per l’incidenza immediata sulla realtà aziendale in cui il lavoratore è inserito, cagionano l’effettiva esigenza del datore di lavoro di porre fine al rapporto di lavoro, anche quando queste vicende e questi eventi siano riconducibili a vicende personali del lavoratore 16.
Di massima, si ritiene che il licenziamento risulti assistito da un giustificato motivo oggettivo soltanto quando il lavoratore non possa essere utilizzato su posizioni di lavoro alternative, e ciò in un ordine di idee che tende a collocare il licenziamento in un’area di extrema ratio e a riconoscere in capo al datore di lavoro un vero e proprio obbligo di repechage, ovverosia un obbligo di ricollocamento e assegnazione al lavoratore, ove disponibili in azienda, di diverse, e anche inferiori, mansioni.
In linea teorica ed astratta, l’onere di provare l’impossibilità di proficuo utilizzo del licenziando in posti di lavoro diversi è a carico del datore di lavoro, ma, data la concreta difficoltà di una prova che dovrebbe riguardare tutti i comparti dell’azienda, la giurisprudenza tende accontentarsi di elementi probatori presuntivi, ritenendo, ad esempio sufficiente la dimostrazione di non avere proceduto a nuove assunzioni, oppure la mancata liberazione di posti di lavoro nel periodo di licenziamento; in ogni caso si richiede una prova di tipo statico, riferita cioè allo stato dell’organizzazione del lavoro al momento dell’espulsione e non alle ipotetiche modifiche organizzative che il datore potrebbe attuare per reperire nuove possibilità occupazionali.
E’, ancora, opinione diffusa che il controllo del giudice, chiamato ad accertare la legittimità del licenziamento, non possa estendersi fino a sindacare l’opportunità e la congruità delle scelte in materia di assetti produttivi ed organizzativi, rispetto alle quali l’imprenditore gode dell’autonomia garantita dell’articolo 41, co.1 Cost..
Nel caso di soppressione del posto di lavoro, pacificamente integrante gli estremi del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, il giudice di merito dovrà, e potrà, limitarsi a verificare la sussistenza di un nesso causale tra la insindacabile scelta del datore di lavoro che sta a monte della soppressione del posto e il conseguente licenziamento del lavoratore; al pari insindacabile nel merito è anche, secondo l’orientamento emerso nella giurisprudenza più recente, la scelta dell’imprenditore di modificare l’assetto organizzativo, esternalizzando una determinata attività, ovvero ancora le modifiche organizzative finalizzate al risparmio dei costi o all’incremento dei profitti 17.
Un cenno, infine, va fatto alla diversa ipotesi del licenziamento per superamento del periodo di comporto, ovvero al licenziamento intervenuto a seguito del protrarsi dell’assenza del lavoratore dal lavoro dovuta a malattia oltre il periodo di comporto fissato dalla legge o dalla contrattazione collettiva di sospensione del rapporto per malattia con diritto alla conservazione del posto di lavoro.
Dopo l’ormai remoto intervento della Cassazione a Sezioni Unite18, si è diffusa tra i giudici la convinzione che il superamento del periodo di comporto costituisca un’autonoma fattispecie di recesso, interamente regolata dall’art. 2110 c.c., che contemplerebbe un’ipotesi legale di giustificato motivo di licenziamento dalla quale desumere il diritto dell’imprenditore di recedere dal contratto di lavoro, ai sensi dell’art. 2118 c.c., quando la malattia del lavoratore si sia protratta oltre il periodo stabilito dalla legge o dal contratto collettivo e dagli usi.
§ 4. Il licenziamento radicalmente nullo. Il licenziamento discriminatorio
Nell’impianto della legislazione speciale sui licenziamenti individuali, il licenziamento discriminatorio ha sempre avuto una separata collocazione, oggetto di una stratificazione di discipline susseguitesi nel tempo che ne hanno delineato la fattispecie specifica.
Esso trae origine dal coordinamento delle previsioni contenute nell’art. 4 Legge n. 604/1966, secondo cui il licenziamento determinato “da ragioni di credo politico, fede religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacale è nullo indipendentemente dalla motivazione adotta” e nell’art. 15 dello Statuto dei Lavoratori, rubricato “Atti discriminatori”, che ha una portata più generale di contrasto a tutte le discriminazioni sul lavoro, di cui il licenziamento è solo una species, sanzionate anch’esse con la nullità.
La norma statutaria, che in origine prendeva in considerazione unicamente la discriminazione sindacale, politica o religiosa, in evidente continuum con l’art. 4 della legge del 1966, ha visto successivamente ampliato il proprio ambito precettivo, con l’approvazione della c.d. Legge sulla parità (art. 13 Legge n. 903/1977) che ha allargato l’elenco delle ragioni discriminatorie alle situazioni di razza, di lingua e di sesso, alle quali l’art. 4 d.lgs. n. 216/2003, di recepimento della direttiva numero 2000/78/CE, ha aggiunto le situazioni di handicap, età, orientamento sessuale e convinzioni personali del lavoratore.
Un regime sanzionatorio più efficace è stato, poi introdotto, dalla Legge n. 108/1990, che ha ribadito la nullità dei licenziamenti discriminatori indipendentemente dalla motivazione adotta e, al contempo, ha esteso ad essi la sanzione reintegratoria, qualunque siano i livelli occupazionali dell’impresa o dell’unità produttiva.
La nullità del licenziamento discriminatorio è stata ribadita dalla riscrittura dell’art. 18 ad opera della Legge n. 92/2012, che individua la fattispecie de qua con espresso rinvio all’art. 3 Legge n. 108/1990, confermando, in tal modo, l’applicazione in queste ipotesi – che costituiscono un’elencazione tassativa – della tutela reale nella sua configurazione tradizionale, ovverosia l’ordine al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati, di reintegrare il lavoratore di cui se ne sia accertata la discriminazione e il versamento di un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, che non potrà essere inferiore a cinque mensilità, dedotto l’aliunde perceptum.
La reintegra piena è ora prevista anche dalla disciplina sul contratto di lavoro a tutele crescenti per le ipotesi di nullità del licenziamento “perché discriminatorio a norma dell’articolo 15 della Legge 20 maggio 197 n. 300”, oltre ai casi in cui il licenziamento è riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge.
Come rilevato dalla dottrina, rispetto alla riforma del 2012, la novella del 2015 opera un più sintetico riferimento alle situazioni in cui la legge qualifica il licenziamento come nullo, senza però che ne risulti modificato il riferimento ad ogni specie di discriminazione e ad ogni fattispecie di licenziamento che il diritto comune o il diritto speciale qualifichino come nullo.
L’emersione della discriminazione, indipendentemente dalla motivazione, e dunque al di sotto e al di fuori di essa, è agevolata dal particolare regime probatorio che la assiste.
Invero, ove un atto o un comportamento sia qualificabile come discriminatorio, troverà applicazione lo speciale regime dell’onere della prova che grava sul ricorrente, che vuole che questi alleghi elementi di fatto capaci di convincere prima facie il giudice del fumus della discriminazione e, dunque, non dell’intento dell’agente, ma di un oggettivo collegamento fattuale del trattamento sfavorevole a lui riservato con uno specifico fattore di discriminazione.
Graverà, allora, sul datore di lavoro l’onere di fornire elementi di prova sufficienti ad escludere positivamente la discriminazione, elementi che, tuttavia, non si esauriscono nella prova della fondatezza delle motivazioni fondanti il licenziamento, bensì comportano la dimostrazione che il licenziamento è nella specie, oltre che sorretto da una motivazione conforme ai canoni della giusta causa e del giustificato motivo, estraneo ad ogni possibile collegamento con il fattore di discriminazione invocato19.
4.1 Il licenziamento per causa di matrimonio e per maternità e/o paternità
Il potere di recesso del datore di lavoro non è solo vincolato ad alcuni presupposti causali, ma incontra anche limiti temporali che configurano una stabilità temporanea e aggiuntiva rispetto a quelle espresse dalla normativa vincolativa del potere di licenziamento.
Accanto al generale divieto di licenziamenti discriminatori, il legislatore ha introdotto un divieto temporaneo di recesso in tutte quelle situazioni in cui diventa preminente tutelare i diritti fondamentali del lavoratore quale individuo e cittadino, costituzionalmente rilevanti e preminenti sull’obbligazione lavorativa.
Tra queste, rilievo specifico assumono il divieto di licenziamento in concomitanza con il matrimonio, ora disciplinato dall’art. 35 Codice Pari opportunità (d.lgs. n. 198/2006), e il divieto di licenziamento della lavoratrice madre, attualmente contenuto, dopo una complessa evoluzione normativa, nell’art. 54 T.U Maternità e Paternità (d.lgs. n. 151/2001).
Per contrastare una prassi discriminatoria assai diffusa nell’immediato dopoguerra, viene legislativamente introdotta una presunzione di nullità dei licenziamenti temporalmente contigui alla celebrazione del matrimonio, ovvero intimati nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle pubblicazioni, in quanto seguite dalla celebrazione, sino a un anno dopo la celebrazione stessa, come tali colpiti dal sospetto che siano da rinvenire in tale modifica dello status della lavoratrice, e nel rischio di maternità collegato alle nozze, le effettive ragioni del recesso.
Allo stesso modo e per le medesime ragioni, sono nulle anche le dimissioni presentate dalla lavoratrice nello stesso periodo in cui è prevista la nullità del licenziamento, a meno che la lavoratrice non le confermi entro un mese davanti all’ufficio pubblico a ciò preposto (oggi ITL).
In tale ipotesi, la lavoratrice nei cui confronti opera la presunzione legale di nullità, di carattere assoluto20, non avrà necessità di provare che è stata licenziata a causa del matrimonio, ma potrà limitarsi a dedurre che il licenziamento è avvenuto all’interno del suddetto periodo; per superare la presunzione legale di nullità, il datore di lavoro non potrà limitarsi a dimostrare che il licenziamento non è dovuto a matrimonio – evento che potrebbe anche ignorare in quanto il divieto opera oggettivamente non sussistendo in capo alla lavoratrice un obbligo di comunicazione del matrimonio al datore di lavoro – ma dovrà dimostrare la presenza di una delle eccezioni espressamente previste dalla medesima legge: colpa grave della lavoratrice costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro; cessazione dell’attività dell’azienda cui ella è addetta; ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o risoluzione del rapporto per scadenza del termine.
Il divieto di licenziamento opera, altresì, dall’inizio della gravidanza fino al termine del periodo di interdizione della lavoratrice dal lavoro (c.d. congedo di maternità), nonchè fino al compimento di un anno di età del bambino; il divieto opera in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza, prescindendo di conseguenza dalla conoscenza dello stato di gravidanza da parte del datore di lavoro, attestato da idonea certificazione da cui risulti lo stato di gravidanza al momento del licenziamento che la lavoratrice licenziata è tenuta a presentare.
In quest’ultima ipotesi, alle tre eccezioni al divieto già previste per il caso di licenziamento irrogato in concomitanza di matrimonio, l’art. 54 d.lgs. 151/2001, accogliendo le osservazioni della Corte costituzionale espresse nella sentenza n. 172/1996, ha aggiunto una quarta ipotesi di legittimo recesso datoriale durante il periodo di irrecedibilità legata all’esito negativo della prova.
Il licenziamento intimato in violazione del divieto, e al di fuori delle eccezioni stabilite, è, come visto, radicalmente nullo ed implica che, durante il periodo di irrecedibilità, l’esistenza di eventuali ragioni giustificatrici, che non siano quelle consentite, è del tutto ininfluente, per cui anche se datore di lavoro fosse in grado di provare un giustificato motivo o una giusta causa di licenziamento, diversa dalla colpa grave della lavoratrice, il licenziamento sarebbe ugualmente invalido.
Il divieto di licenziamento vige, inoltre, anche per il padre lavoratore, per la durata del congedo stesso, e si estende fino al compimento di un anno di età del bambino, come allo stesso modo vige, altresì, in caso di adozione e di affidamento fino ad un anno dall’ingresso del minore nel nucleo familiare, in caso di fruizione del congedo di maternità e di paternità.
La disciplina legislativa prevede, infine, il divieto di licenziamento, e la conseguente nullità dello stesso ove intimato, causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per malattia del bambino da parte della lavoratrice e del lavoratore, anche adottivi o affidatari, che, tuttavia, pare assumere una posizione a sé stante, più simile ad un licenziamento ritorsivo.
Quanto alle conseguenze della nullità, fino alla riforma dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ad opera della Legge n. 92/2012, queste variavano a seconda che il licenziamento fosse qualificato come discriminatorio oppure no, perché la mancata qualificazione del licenziamento come discriminatorio privava la lavoratrice della tutela reale.
La riforma del 2012, e la sostanziale conferma da parte del d.lgs. n. 23/2015 per i lavoratori assunti con contratto di lavoro a tutele crescenti, ha esteso a tutti questi licenziamenti vietati, e pertanto nulli, il regime della reintegrazione nel posto di lavoro e del risarcimento dei danni ai sensi dell’articolo 18 comma 1 (come riformulato dalla Legge n. 92/2012), facendo sostanzialmente perdere alla questione della qualificazione del licenziamento de quo rilevanza pratica.
4.2 Il motivo illecito determinante e le altre cause di nullità del licenziamento
Un’altra fattispecie contemplata dall’art. 18, co. 1 Stat. Lav. riconducibile all’area dei licenziamenti nulli per ragioni sostanziali, è il licenziamento determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 c.c., il cui banco di prova è stato negli ultimi anni l’abbondante produzione giurisprudenziale sul recesso nelle minori unità di lavoro.
Per usare le parole della Cassazione, esso costituisce “l’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione, che attribuisce al licenziamento il connotato della ingiustificata vendetta”21 (si pensi al licenziamento per ritorsione per una rivendicazione giudiziale avanzata dal lavoratore o per l’esercizio della libertà di manifestazione del pensiero nei luoghi di lavoro).
La fattispecie sostanziale, ossia le condizioni perché un licenziamento possa ritenersi affetto da un motivo illecito, si determina con riferimento alla norma codicistica espressamente richiamata, ossia l’articolo 1345 c.c., in combinato disposto con gli artt. 1324 e 1418 c.c., secondo cui l’atto unilaterale deve ritenersi nullo se viziato da motivo illecito, vale a dire contrario a norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume, e solo alla condizione che siffatto motivo illecito sia stato l’unico determinante ed abbia avuto efficacia esclusiva della volontà del datore di lavoro di recedere dal rapporto, con la conseguente implicazione che la nullità del licenziamento sarebbe esclusa quando con il motivo illecito concorra un motivo lecito, come una valida giusta causa o un valido giustificato motivo.
L’elencazione si chiude con il riferimento a tutti gli altri casi di nullità di licenziamento espressamente previste dalla legge, formulazione giuridica aperta il cui spazio di operatività è stato individuato in tutte quelle ipotesi di nullità di licenziamento oggetto di tipizzazione preventiva da parte della legge, non essendo sufficiente la violazione di una qualsivoglia norma imperativa di diritto del lavoro, neanche di rango costituzionale.
Tra le nullità espresse è possibile annoverare, esemplificando, il licenziamento in frode alla legge (ad es. quello intimato prima del trasferimento di azienda seguito dall’immediata riassunzione presso il cessionario per aggirare la applicabilità dell’art. 2112 c.c.), il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione dei congedi previsti dalla legge, ossia i congedi per eventi e cause particolari, i congedi per la formazione continua etc.; il licenziamento del sieropositivo HIV, vietato dalla Legge n. 135/1990; il licenziamento per riduzione di personale o per giustificato motivo oggettivo disposto nei confronti del lavoratore occupato obbligatoriamente, qualora il licenziamento provochi la lesione della quota di riserva legale; il licenziamento intimato in violazione del limite percentuale di manodopera femminile impiegata nelle mansioni interessate da un licenziamento per riduzione del personale; il licenziamento a causa della partecipazione ad uno sciopero illegittimo nell’ambito dei servizi pubblici essenziali.
Sul piano delle conseguenze sanzionatorie, pur in assenza di un espresso riconoscimento legislativo, già prima della novella del 2012 la giurisprudenza di legittimità, praticamente senza eccezioni, applicava ai licenziamenti nulli per motivo illecito determinante, ed in particolare a quelli determinati da motivi di ritorsione o di rappresaglia che sono i più frequenti nelle cronache giudiziarie, non già la nullità di diritto comune bensì il la tutela reintegratoria anche a datori di lavoro con meno di 16 dipendenti .
Con la riscrittura dell’art. 18 Stat. Lav. ad opera della legge di riforma del 2012, tutte le ipotesi di nullità del licenziamento sono assoggettate al regime sanzionatorio della reintegrazione nel posto di lavoro e del risarcimento dei danni, con una formulazione dunque onnicomprensiva.
Nella disciplina del contratto a tutele crescenti, invece, (art. 2, co. 1, d.lgs. 23/2015), l’ambito di applicabilità dell’anzidetto regime sanzionatorio è diversamente formulato, poichè la disposizione prevede che la sanzione della reintegrazione sia applicata nei casi di nullità del licenziamento discriminatorio ai sensi dell’art. 15 St. Lav. – mostrando l’intento di voler escludere letture discriminatorie di ogni licenziamento nullo – e, più ampiamente negli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, eliminando le indicazioni specifiche di nullità contenute nella norma statutaria ed in particolare il riferimento all’art. 1345 c.c.
La nuova statuizione ha inevitabilmente aperto un forte dibattito intorno al significato da attribuire all’avverbio “espressamente”, che ha dato vita a letture diverse ed opposte, tra le quali è apparsa preferibile e condivisibile quella che ritiene necessario, ma anche sufficiente, che espressa, e quindi specifica, sia la regola sull’esercizio del potere di licenziamento, con la tipizzazione ex ante da parte del legislatore ordinario delle condizioni che legittimo o no l’esercizio del potere di recesso.
Se, dunque, questa è la lettura più corretta da dare a questa parte della disposizione dell’art. 2 d.lgs. 23/2015, la mancata riproduzione nel testo della norma del disposto sul licenziamento nullo per motivo illecito, spingerebbe quest’ultimo fuori dal perimetro applicativo della tutela reintegratoria tradizionale, alla quale si sostituirebbe la tutela reale c.d. di diritto comune (continuità giuridica del rapporto, ripristino del rapporto e risarcimento del danno), con una evidente, e forse irragionevole, disparità di trattamento tra lavoratori assunti prima o dopo il 7 marzo 2015.
4.3. L’obbligo di reintegrazione
Nel regime di tutela applicabile alle fattispecie di licenziamento considerate, come visto, il giudice, con la sentenza con cui dichiara inefficace o nullo il licenziamento, ordina al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro.
Obiettivo del legislatore è quello di assicurare al lavoratore, illegittimamente privato del suo posto di lavoro, una tutela in forma specifica, e la specificità consiste nella effettiva riammissione in azienda del lavoratore e nella ripresa della normale utilizzazione/esecuzione della prestazione lavorativa.
Rispetto al valore da attribuire all’obbligo di reintegrazione, si registra, in giurisprudenza come nell’opinione di parte della dottrina, una tendenza a sottovalutare il ruolo della reintegrazione come fondamentale strumento di tutela del diritto al lavoro, sulla base della diffusa convinzione che la reintegrazione è una tutela se non inutile, quanto meno debole o non effettiva, a causa soprattutto della incoercibilità dell’obbligo di reintegrazione.
La giurisprudenza maggioritaria, d’accordo con la prevalente dottrina, è infatti, ferma nel ritenere che le sentenze di condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro ordinino al datore di lavoro un facere infungibile e incoercibile, dunque non suscettibile di esecuzione forzata, oltre a riconoscere nei fatti al datore la possibilità di non ottemperare a tale obbligo e di lasciare inutilizzato il lavoratore pur regolarmente retribuito.
A fini dell’effettiva reintegrazione del lavoratore è, perciò, necessario un comportamento attivo del datore di lavoro, oltre e a prescindere dall’ordine giudiziario, che deve in concreto invitare il lavoratore a riprendere il servizio, attraverso un atto unilaterale recettizio dal contenuto specifico, e in concreto reinserirlo nelle mansioni precedenti o in mansioni equivalenti, nella stessa unità produttiva o in un’altra, purché il trasferimento sia giustificato da ragioni tecnico-produttive o organizzative.
L’obbligo di reintegrazione decade se il lavoratore, correttamente invitato, non riprende servizio entro 30 giorni dall’invito rivolto dal datore di lavoro, e il rapporto di lavoro si intende risolto allo spirare dello stesso termine, salvo un giustificato motivo di assenza, così nel caso della malattia del lavoratore certificato e comunicata al datore di lavoro.
Al prestatore di lavoro che ha ottenuto una sentenza di reintegrazione è data la facoltà di monetizzare la reintegrazione stessa, esercitando il diritto di opzione di cui all’art. 18, co. 3 Stat. Lav., ovvero chiedendo un’indennità sostitutiva pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
L’attuale disciplina, confermata dall’art. 2 d.lgs. n. 23/2015, raccogliendo l’orientamento giurisprudenziale affermatosi sul punto, attribuisce alla richiesta dell’indennità sostitutiva da parte del lavoratore, purchè presentata nel termine di 30 giorni dal deposito della sentenza che ordina la reintegrazione, ovvero dall’invito a riprendere servizio se anteriore, l’effetto risolutivo del rapporto di lavoro.
Degli eventuali ritardi nel pagamento dell’indennità sostitutiva, il datore di lavoro risponde secondo le regole vigenti in materia di mora del debitore.
§ 5. L’impugnazione del licenziamento: forma e procedura
A norma dell’art. 6 Legge n. 604/1966, come novellato dall’art. 32, co. 1, Legge n. 183/2010, modificato ancora dall’art. 1, co. 38, Legge n. 92/2012, il lavoratore che ritiene viziato l’atto di recesso intimatogli può, e deve, impugnarlo, a pena di decadenza, entro 60 giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta.
Nell’iniziale previsione normativa, il termine poteva decorrere dalla comunicazione scritta dei motivi, stante la previsione della facoltà di non comunicarli contestualmente ma a seguito di espressa richiesta scritta del lavoratore successiva al ricevimento del provvedimento stesso; tale assetto è stato modificato con la previsione dell’obbligo di comunicazione della motivazione del licenziamento contestualmente allo stesso (art. 1, co. 37 Legge n. 92/2012), per cui ad oggi si ritiene che il termine di 60 giorni decorra necessariamente dalla comunicazione del provvedimento espulsivo.
La previsione del termine decadenziale anzidetto è applicabile a tutti i casi di invalidità del licenziamento, nonché ai licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro (art. 32, co.2 Legge n. 183/2010), pertanto si ritiene applicabile, oltre che ai licenziamenti nulli o annullabili, anche ai licenziamenti inefficaci, essendo l’inefficacia equiparata, sul piano degli effetti, alla nullità; restano al di fuori di tali previsioni unicamente il licenziamento intimato oralmente, avendo il legislatore specificato che il termine decorre dalla comunicazione del licenziamento in forma scritta, e per tale ragione, di tutta evidenza, mancando la comunicazione scritta del licenziamento, non può decorrere alcun termine.
Quanto ai soggetti legittimati, fermo il potere d’impugnativa in capo all’organizzazione sindacale per espressa previsione normativa, dubbi sono stati espressi circa la legittimazione dell’avvocato cui il lavoratore abbia conferito incarico in forma verbale, rispetto ai quali è prevalsa la soluzione negativa, sul presupposto che, nel rispetto del principio generale ex art. 1392 c.c., la procura deve rivestire la stessa forma prevista per l’atto da compiere, sicché l’impugnativa sottoscritta dal legale in assenza di specifica procura per iscritto non vale ad impedire la decadenza22.
L’impugnazione può avvenire con qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, a prescindere da formule sacramentali, purché idonea a manifestare inequivocabilmente al datore di lavoro l’intenzione del lavoratore di contestare la legittimità del recesso.
Essa può anche essere direttamente giudiziale, con il deposito, entro il termine prescritto, del ricorso innanzi all’autorità giudiziaria competente ed in tal caso la giurisprudenza di legittimità, sul presupposto che l’impugnativa configuri un atto unilaterale recettizio destinato a perfezionarsi solo nel momento in cui viene conosciuto dal datore, afferma che per evitare la decadenza del diritto all’impugnazione non solo il deposito, che resta ignoto al datore, ma anche la notifica del ricorso al datore di lavoro debbono avvenire entro i 60 giorni dalla comunicazione del licenziamento.
Al termine decadenziale concesso per impugnare l’atto di recesso datoriale, che resta un termine di decadenza ed in quanto tale non può essere nè interrotto né sospeso, si aggiunge un secondo termine di decadenza, che va sommarsi al primo: l’impugnazione stragiudiziale è, infatti, inefficace se non è seguita entro 180 giorni – termine così ridotto dalla legge di riforma del 2012 – dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale competente o dalla comunicazione alla controparte della richiesta del tentativo di conciliazione o arbitrato; qualora la conciliazione o l’arbitrato siano rifiutati o non sia stato raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro 60 giorni dal rifiuto o dal mancato accordo (art. 32, co. 7 Legge n. 183/2010)23.
Dubbi interpretativi sono sorti in merito alla dies a quo di decorrenza di questo secondo termine decadenziale di 180 giorni, ed in particolare sulla possibile sua decorrenza o meno dalla scadenza dei primi 60 giorni previsti per la impugnazione stragiudiziale, così da dar luogo ad un complessivo termine di 240 giorni. L’opzioni interpretativa che sembra prevalere è quella negativa, secondo cui la formulazione letterale della norma porta ed escludere la sommatoria dei due termini e a ritenere che il termine per il deposito del ricorso giudiziale decorre dall’effettiva data dell’impugnazione del licenziamento 24.
La giurisprudenza ha avuto, altresì, modo di affrontare un altro tema di rilevante interesse pratico, in tema di tempestività dell’impugnazione, precisando che il termine di decadenza di cui all’art. 6, per come modificato dalla novella del 2012, risulta soddisfatto, e la decadenza evitata, dalla trasmissione dell’atto scritto di impugnazione del licenziamento, e non dalla data di perfezionamento dell’impugnazione per effetto della sua ricezione da parte del datore di lavoro25, che potrebbe anche essere successiva allo spirare del termine decadenziale.
Dal punto di vista poi squisitamente processuale, in applicazione dei principi generali, l’eventuale intervenuta decadenza non è rilevabile d’ufficio ma deve essere formalmente eccepita dalla controparte nella prima difesa scritta.
La mancata impugnazione del licenziamento nel termine fissato, inoltre, non comporta la liceità del recesso del datore di lavoro, ma semplicemente preclude al lavoratore la possibilità di accedere al regime di tutela reale intesa in senso tradizionale, ferma la esperibilità, in alternativa, della normale azione risarcitoria in base ai principi generali e previa allegazione dei presupposti.
Per quanto riguarda, infine, l’onere della prova nelle controversie in materia di licenziamento, merita ricordare che, mentre della prova della giustificazione del licenziamento è onerato il datore di lavoro convenuto in giudizio (art. 5 Legge n. 604/1966), il lavoratore che impugna il licenziamento ha l’onere di provare, quale fatto costitutivo della pretesa, oltre al rapporto di lavoro subordinato, l’esistenza del licenziamento e, dunque, il fatto dell’avvenuta estromissione dal luogo di lavoro.
Detta questione dell’onere probatorio a carico del lavoratore rileva quasi esclusivamente nel caso del licenziamento orale, ed in particolare in quelle ipotesi in cui il lavoratore affermi di essere stato licenziato e il datore di lavoro eccepisca che, invece, è stato il lavoratore a dimettersi, in più occasioni risolto dalla Corte di cassazione onerando il lavoratore di provare esclusivamente l’avvenuta cessazione del rapporto, lasciando la prova delle dimissioni del lavoratore, trattandosi di eccezione in senso stretto, in capo al datore di lavoro 26.
§ 6. La revoca del licenziamento
L’istituto della revoca del licenziamento ha ricevuto per la prima volta una disciplina specifica con la legge di riforma del 2012, che, nel riscrivere l’art. 18 Stat. Lav., ha espressamente procedimentalizzato tale facoltà per i soli datori di lavoro destinatari delle prescrizioni della norma statutaria (unità produttive con più di 15 dipendenti).
Analoga disciplina è stata, successivamente, ripresa e generalizzata dal d.lgs. n. 23/2015 per tutti i lavoratori assunti con contratto di lavoro a tutele crescenti dopo la data del 7 marzo 2015, che, in prospettiva, è destinata a sostituire la precedente, via via che si esauriranno i rapporti di lavoro in essere alla data della sua entrata in vigore.
La disciplina della revoca del licenziamento di cui alle due normative richiamate (art. 18, co. 10, Stat. Lav. e art. 5 d.lgs. n. 23/2015), si differenzia notevolmente da quella elaborata dalla giurisprudenza in mancanza di specifica regolamentazione legislativa, dacchè esclude che la revoca del licenziamento ad opera del datore di lavoro, in quanto atto unilaterale, necessiti di accettazione del lavoratore27.
La revoca, trattandosi di atto recettizio, deve essere comunicato al lavoratore nel termine di quindici giorni dalla comunicazione dell’avvenuta impugnazione del licenziamento,- si ritiene, in assenza di specifica indicazione normativa, nella stessa forma del licenziamento -, ed ha l’effetto, se tempestiva, di ripristinare il rapporto di lavoro interrotto senza soluzione di continuità, con conseguente diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente, senza possibilità di richiedere il risarcimento degli eventuali ulteriori danni e, dunque, potersi avvalere dei regimi sanzionatori previsti rispettivamente dall’art. 18 Stat. Lav. e dall’art. 5 d.lgs. n. 23/2015.
Alla descritta disciplina va riconosciuto il pregio di fare chiarezza sulle annose questioni relative alla ricostruzione della volontà delle parti e di consentire al datore di lavoro, che sia consapevole dell’aver adottato un provvedimento illegittimo, di valutare la reazione del lavoratore ed eventualmente provvedere, revocando, appunto, tempestivamente il licenziamento.
§ 7. Il licenziamento ingiustificato e le sue conseguenze
Prima delle importanti modifiche introdotte dalla Legge n. 92/2012, il regime sanzionatorio dei licenziamenti intimati senza giusta causa o giustificato motivo prevedeva, come già accennato, un doppio alternativo sistema di tutele, la c.d tutela obbligatoria (art. 8 Legge n. 604/1966) e la c.d. tutela reale (art. 18 Stat. Lav.), operanti a seconda che il licenziamento venisse intimato, rispettivamente, da un datore di lavoro che non occupasse alle sue dipendenze più di quindici lavoratori, o, viceversa, che superasse tale soglia occupazionale.
La riforma operata dalla Legge n. 92/2012 (c.d. Riforma Fornero), pur lasciando immutati i campi di applicazione delle rispettive tutele e le nozioni di giusta causa e giustificato motivo soggettivo e oggettivo, ha profondamente modificato il contenuto della tutela reale, prevedendo una pluralità di sanzioni graduate secondo diverse intensità in funzione delle specifiche causali del licenziamento, a partire dalla summa divisio tra il licenziamento nullo o discriminatorio, come visto, il licenziamento disciplinare e il licenziamento economico per giustificato motivo oggettivo.
Questo intervento legislativo ha determinato, proprio all’interno dell’art. 18, una forte restrizione dell’ambito di applicazione della tutela reale, al cui interno è stata introdotta la distinzione tra “tutela reale piena”, riservata ai licenziamenti inefficace e/o nulli, e “tutela reale ridotta”, applicabile solo in alcuni casi di licenziamenti ingiustificati, a cui si affianca, sempre all’interno della medesima statuizione, una forte espansione della tutela indennitaria, nell’ambito della quale la legge distingue una “tutela forte” e una “tutela debole”, applicabili in altri casi di licenziamento ingiustificato e affetti da vizi formali e/o procedurali.
La legge di riforma del 2012 non ha, invece, modificato la tutela obbligatoria prevista dalla Legge n. 604/1966, che resta perciò immutata, quanto al campo di applicazione e quanto alla disciplina sanzionatoria applicabile al licenziamento privo di giustificazione.
Questo duplice regime è stato, recentemente, affiancato da un ulteriore disciplina sanzionatoria introdotta con il d.lgs. n. 23/2015 (c.d. Jobs Act), applicabile ratione temporis ai lavoratori assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti a far data dal 7 marzo 2015, data di entrata in vigore del menzionato decreto legislativo.
L’entrata in vigore di tale nuova normativa ha reso evidente il carattere provvisorio della disciplina dei licenziamenti contenuta nella Legge n. 92/2012 che, per quanto vigente, può essere ormai considerata “ad esaurimento”, poiché trova applicazione nei contratti di lavoro a tempo indeterminato stipulati prima del 7 marzo 2015 e non nei contratti a tutele crescenti stipulati dopo tale data.
In ogni caso, fino a che vi saranno contratti di lavoro a tempo indeterminato ma non a tutele crescenti, per questi contratti la disciplina dei licenziamenti, salvo ulteriori precisazioni, è quella contenuta nella legge di riforma del 2012, a meno che, a fronte della disparità non ragionevoli di trattamento cui da luogo l’applicazione di discipline fortemente differenziate solo in ragione della data di assunzione dei lavoratori, il legislatore non proceda, magari sollecitato dalle aule di giustizia, alla riunificazione delle diverse discipline.
A fronte della contemporanea vigenza delle già menzionate discipline dei licenziamenti e dei regimi sanzionatori da esse previste, risultano oggi in vigore quattro regimi di tutela contro i licenziamenti illegittimi, individuabili in funzione di un doppio criterio, la dimensione dell’impresa e la data di assunzione del prestatore di lavoro, ovverosia:
– la tutela obbligatoria ai sensi dell’art. 8 Legge n. 604/1966 per i lavoratori della piccola impresa assunti prima del 7 marzo 2015;
– la tutela reale/indennitaria ai sensi dell’art. 18 Stat. Lav. per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015;
– la tutela reale/indennitaria ai sensi dell’art. 2, d.lgs. n. 23/2015 per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015;
– la tutela solo indennitaria ai sensi dell’articolo 9, 2 co., d.lgs. n. 23/2015 per i lavoratori della piccola impresa assunti dopo il 7 marzo 2015;
Nelle prossime pagine si analizzeranno i singoli regimi sanzionatori, con riguardo ai soli licenziamenti disciplinari privi dei presupposti legittimanti il potere di recesso.
7.1 La tutela obbligatoria: l’art. 8 Legge n. 604/1966
Il regime sanzionatorio previsto dall’articolo 8 Legge n. 604/1966, che non ha subito modifiche né ad opera della legge di riforma del 2012 nè di quella del 2015, al quale si dà tradizionalmente il nome di tutela obbligatoria, riguarda i soli licenziamenti ingiustificati e i licenziamenti disciplinari viziati nella procedura intimati nell’ambito di applicazione della stessa legge, ovvero datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori che occupano alle proprie dipendenze fino a 15 dipendenti o organizzazioni imprenditoriali che occupano complessivamente meno di 60, e imprenditori agricoli che occupano fino a cinque dipendenti.
Ai sensi dell’art. 8 della legge richiamata, quando il licenziamento risulti ingiustificato, il datore di lavoro è tenuto “a riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli un’ indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 e un massimo di sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto”, elevabili fino a 10 mensilità se l’anzianità di servizio del lavoratore è superiore ai 10 anni e fino a 14 se superiore ai 20 anni.
Dal testo della norma emerge l’idoneità del licenziamento, pur illegittimo, a risolvere il rapporto di lavoro e, dunque, a produrre l’effetto di estinguere il rapporto stesso, ma fa sorgere in capo al datore un’obbligazione alternativa di ricostituzione ex novo di un rapporto di lavoro con il lavoratore illegittimamente licenziato o, a sua scelta, il versamento di un’indennità risarcitoria forfettaria, soluzione quest’ultima, largamente prevalente nella pratica.
I criteri per la determinazione dell’importo del risarcimento forfettario previsti dalla norma, di cui il giudice dovrà tener conto, sono stati più di recente modificati dall’ articolo 30, co. 3, Legge n. 183/2010, che ha inserito, accanto al numero di dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti, anche i parametri fissati dai contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi ed ai contratti individuali certificati, qualora prevedano criteri diversi, integrativi e non alternativi rispetto ai criteri legali.
Il risarcimento è calcolato in base all’ultima retribuzione globale di fatto corrisposta al lavoratore quando era in servizio, moltiplicata per il numero di mensilità deciso dal giudice tra il minimo e il massimo previsti dalla legge, con esclusione di ogni considerazione circa il danno effettivamente subito dal lavoratore, che resta quindi fuori da ogni valutazione.
Al lavoratore illegittimamente licenziato per giusta causa nell’ambito della tutela obbligatoria, la giurisprudenza riconosce, oltre all’indennità risarcitoria e in alternativa alla riassunzione, anche il diritto a percepire l’indennità sostitutiva del preavviso.
7.2 La tutela reale dopo la legge n. 92/2012: l’alternativa tra tutela reale ridotta e tutela indennitaria
Si è già più volte evidenziato come, a seguito della riforma del 2012, l’articolo 18 Stat. Lav. non preveda più come unica reazione alle diverse ipotesi di illegittimità del licenziamento (nullità, annullabilità ed inefficacia) il risarcimento in forma specifica della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.
L’unitarietà del regime precedente risulta, infatti, frantumata a favore di un sistema sanzionatorio più articolato, che costa di ben quattro diverse tipologie di tutela: la tutela reintegratoria piena, riservata alle sole ipotesi di licenziamenti nulli o inefficaci (cfr. supra); la reintegratoria ridotta con indennità limitata a 12 mensilità, prevista per i licenziamenti ingiustificati, privi di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo oggettivo; la tutela indennitaria forte con risarcimento da un minimo di 12 fino a un massimo di 24 mensilità, negli altri casi di licenziamento ingiustificato; l’ indennitaria ridotta con risarcimento da un minimo di sei a un massimo di 12 mensilità, nei casi di licenziamenti viziati nella forma o nella procedura.
Alla graduazione delle sanzioni applicabili ai licenziamenti illegittimi in quest’area normativa, corrisponde una necessaria graduazione delle giustificazioni dei licenziamenti, introdotta dal Legislatore in maniera coerente, agendo in tal modo non solo sul versante della punizione del datore, ma anche su quello dei presupposti che devono sorreggere il licenziamento perché sia legittimo.
7.2.1 La tutela reale ridotta (art. 18, co. 4 e 7, Stat. Lav.)
I licenziamenti ingiustificati perché carenti di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo e oggettivo sono soggetti, nell’ambito di applicazione della norma statutaria, a due distinti regimi sanzionatori, in ragione del diverso grado di mancata o carente giustificazione.
Il primo è quello previsto dall’art. 18, co. 4 Stat. Lav., in base al quale per il licenziamento disciplinare, vale a dire per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, la reintegrazione nel posto di lavoro è prevista solo in due ipotesi specifiche:
a) per insussistenza del fatto contestato posto a base del licenziamento: ipotesi che si verifica non solo quando il datore di lavoro abbia rivolto al lavoratore un’accusa infondata, basata su un fatto non vero, ma anche quando il fatto contestato, pur essendo vero, palesemente non assuma la rilevanza sufficiente a giustificare il licenziamento, con o senza preavviso. Sul significato da attribuire all’espressione, si confrontano, dal suo debutto, dottrina e giurisprudenza, sostenendo la prima che il fatto al quale la legge fa riferimento è un fatto materiale storico, spogliato di tutti gli elementi di contestualizzazione del caso concreto e esente da ogni valutazione di gravità e proporzionalità, la seconda, di contro, per opinione dominante in giurisprudenza, che, quando si tratta di licenziamento disciplinare, assumono rilevanza ai fini del giudicare non fatti materiali, ma inadempimenti contrattuali imputabile al lavoratore.
La giurisprudenza ormai pacifica sul punto, invero, ha affermato che un fatto materiale esistente, ma privo di rilievo disciplinare, è un fatto insussistente28: l’irrilevanza giuridica equivale a irrilevanza materiale. La rilevanza dell’ inadempimento, poi, ai fini della giustificazione del licenziamento deve essere valutata alla stregua dei criteri legali, dunque, l’inadempimento che giustifica il licenziamento deve essere almeno notevole, e poichè si tratta di inadempimento imputabile a colpa del lavoratore, oltre alla componente materiale, ossia il fatto storico, il giudice dovrà valutare l’elemento soggettivo, come anche le circostanze specifiche della condotta che servono a misurare il grado di colpa del lavoratore.
E’, ulteriormente, controverso, se la tardività o intempestività della contestazione dell’addebito disciplinare rilevi ai fini della sussistenza o meno del fatto contestato, misurandosi sul punto opinioni giurisprudenziali altalenanti tra la non rilevanza ai fini della sussistenza del fatto della tardività della contestazione disciplinare, perchè non attinente all’insussistenza nè sotto il profilo materiale nè sotto quello giuridico, e, di converso, la sua dirimenza, perché denotante la scarsa importanza per il datore di lavoro dell’infrazione disciplinare.
b) perché il fatto contestato rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili. La previsione ha comportato non pochi problemi interpretativi a causa della genericità e onnicomprensività delle formule utilizzate dai contratti collettivi, inducendo spesso i giudici a forzare la lettera della legge, nel senso di avocare a sé la valutazione se fatti per i quali i contratti collettivi prevedono una sanzione conservativa non siano viceversa talmente gravi da integrare una giusta causa di licenziamento e, dunque, da condurre ad una valutazione di legittimità del licenziamento. La lettera del nuovo 4 comma dell’art.18 sembra, invece, prevedere un automatismo sanzionatorio che opera sempre in presenza della sfasatura tra le previsioni di tipo conservativo del contratto collettivo e il provvedimento datoriale espulsivo.
Riguardo alle due fattispecie richiamate, è stato osservato che tra esse vi è pieno parallelismo e coerenza sistematica e che attraverso esse viene recuperato il canone della proporzionalità tra inadempimento e sanzioni. Questa valutazione in termini di sussistenza/insussistenza del fatto contestato, altresì, si raccorda con il canone generale dell’art. 1455 c.c., in base al quale il contratto non si può risolvere se l’inadempimento di una delle parti ha scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altra: il comma 4 dell’art. 18 non fa altro che specificare questo principio generale, applicandolo al recesso datoriale giustificato con una condotta inadempiente del lavoratore, ossia al licenziamento disciplinare.
Nelle due ipotesi anzidette, il licenziamento è dichiarato annullabile dal giudice e il datore di lavoro è condannato a reintegrare il lavoratore, al quale è dovuto però non il risarcimento dei danni ma un’indennità – con funzione risarcitoria ma non connessa al danno effettivo – commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore percepito nel periodo di estromissione per lo svolgimento di altre attività lavorative (c.d aliunde perceptum), nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione (c.d. aliunde percipiendum).
La misura dell’indennità risarcitoria non può comunque essere superiore a 12 mensilità della retribuzione globale di fatto, parametrato al solo periodo che va dal licenziamento alla sentenza; per il periodo successivo, resta salvo il diritto del lavoratore al risarcimento commisurato alla retribuzione in caso di mancata reintegrazione.
Il datore di lavoro è condannato, altresì, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali per tutto il periodo fino alla reintegrazione, ma riducibili per singoli periodi alla quota differenziale rispetto ai contributi eventualmente maturati con altra occupazione, anche di rapporti di lavoro non subordinato. A seguito dell’ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro 30 giorni dall’invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l’indennità sostitutiva della reintegrazione nel posto di lavoro, che, come visto, risolve il rapporto.
Lo stesso regime è previsto per i licenziamenti per giustificato motivo economici illegittimi per “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” e per i licenziamenti illegittimi per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore o i licenziamenti intimati in violazione dell’art. 2110 c.c. (superamento del periodo di comporto).
Secondo quanto previsto dall’articolo 18, coma 7, la possibilità per il lavoratore ingiustamente licenziato di vedersi garantita la tutela reale nel caso del licenziamento per giustificato motivo oggettivo risulta più ristretta rispetto al caso del licenziamento disciplinare, poiché la tutela reale è, non solo prevista solo nell’ipotesi in cui il giudice accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, ma è per di più rimessa alla facoltà dello stesso giudice la sua applicazione al caso di specie, in alternativa alla validità del licenziamento e alla condanna del datore di lavoro al solo pagamento di un’indennità ( c.d. tutela indennitaria forte, infra).
Rispetto al concetto di insussistenza del fatto nel licenziamento disciplinare, quello di “manifesta insussistenza” del fatto posto a base del licenziamento economico è relativamente più semplice, dacchè è possibile ragionevolmente ritenersi che con l’espressione manifesta insussistenza il legislatore abbia inteso l’ipotesi di assoluta pretestuosità del motivo oggettivo, quale, per esempio, quello fatto valere in assenza di una effettiva ragione organizzativa; è stato, comunque, escluso, da consolidata giurisprudenza, che sia riconducibile alla figura della manifesta infondatezza la violazione dell’obbligo, di matrice giurisprudenziale, del cosiddetto repechage, sanzionabile con l’applicazione della sola tutela economica.
In sostanza, quando si tratta di un licenziamento motivato da ragioni tecnico- produttive, la reintegrazione da un lato è lasciata alla scelta discrezionale del giudice, sulle cui spalle ricade perciò il peso di una decisione certamente non facile, dall’altro lato, il giudice può condannare il datore di lavoro alla reintegrazione solo qualora accerti la manifesta insussistenza del fatto, espressione che coinvolge non tanto direttamente i fatti ma, soprattutto, valutazioni dell’imprenditore in ordine al venir meno della convenienza della conservazione di un posto di lavoro o di un dato intervento di riorganizzazione aziendale, rispetto ai quali sappiamo bene che il sindacato del giudice è limitato e non può estendersi al merito delle valutazioni tecniche organizzative e produttive che competono, appunto, esclusivamente al datore di lavoro.
Al fine di non ridurre, dunque, la reintegrazione a sanzione per le ipotesi patologiche e come tali del tutto marginali, secondo un orientamento consolidato della giurisprudenza, si dovrà considerare come manifestamente insussistente non solo la motivazione meramente pretestuosa, ma anche la mancata prova del nesso causale tra le scelte tecnico produttive – insindacabili – e il licenziamento del singolo lavoratore29.
7.2.2 Tutela indennitaria forte (art. 18, co. 5 e 7, Stat. Lav.)
L’innovazione più rilevante introdotta dalla Legge n. 92/2012 riguarda la possibilità che, pure a fronte di un licenziamento illegittimo, disciplinare o economico, il giudice dichiari risolto il rapporto e applichi una tutela meramente indennitaria.
Il comma 5 dell’art. 18 Stat. Lav. prevede infatti che, in quelle ipotesi in cui è accertato che il fatto addebitato al lavoratore sussiste e non rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa, il giudice debba valutare se gli elementi forniti dal datore di lavoro, che ha l’onere della prova della giustificazione, integrino gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa e in caso di esito negativo di tale verifica, ovvero di insufficienza della giustificazione a legittimare il licenziamento, come avviene quando l’inadempimento del lavoratore sussiste ed è comunque imputabile ma non è tanto notevole o grave da giustificare il licenziamento, dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data di comunicazione del licenziamento.
Il licenziamento è, pertanto, valido e produce effetto dal momento in cui la sua comunicazione scritta è pervenuta al lavoratore, decorso il preavviso ove previsto.
Il giudice condanna in tal caso il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva, senza deduzioni e satisfattiva del profilo previdenziale, determinata tra un minimo di 12 a un massimo di 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, tenendo conto, e adeguatamente motivando, oltre che dell’anzianità di servizio del lavoratore, del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica e del comportamento e delle condizioni delle parti.
Allo stesso modo, ai sensi del comma 7 dell’art. 18, se si tratta di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in tutte le ipotesi in cui non ricorrano gli estremi del giustificato motivo oggettivo, il giudice applica la tutela indennitaria, per cui il licenziamento è valido e produce l’effetto estintivo del rapporto di lavoro e al lavoratore spetta un’ indennità risarcitoria onnicomprensiva, variabile tra un minimo di 12 a un massimo di 24 mensilità della di retribuzione globale di fatto, alla cui determinazione il giudice procede sulla base dei criteri di cui al comma 4, nonché tenendo conto del comportamento delle parti nella procedura preventiva al licenziamento, ai sensi dell’art art 7, Legge n. 604/1966, da espletare innanzi al DTL.
In queste ultime fattispecie, qualora, nel corso del giudizio, sulla base della domanda formulata dal lavoratore, il licenziamento risulti determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, trovano applicazione le relative tutele (tutela reale piena e tutela reale ridotta).
In conformità all’intenzione del legislatore, la tutela meramente indennitaria dovrebbe costituire – in sostituzione della tutela reintegratoria che resta l’eccezione nelle due varianti descritte – il regime generale di tutela contro il licenziamento illegittimo. Fatta eccezione, invero, per le ipotesi di insussistenza o manifesta insussistenza del fatto e di previsione di una sanzione conservativa da parte della disciplina collettiva, essa si applica a tutti i casi di illegittimità del licenziamento disciplinare ed economico.
7.2.3 Tutela indennitaria debole (art. 18, co. 6, Stat. Lav.)
Un’ultima tipologia sanzionatoria è prevista per le ipotesi di inefficacia del licenziamento per omessa comunicazione dei motivi del licenziamento, per violazione della procedura disciplinare di cui all’art. 7 Stat. Lav. e per violazione della procedura preventiva di conciliazione prevista dall’art. 7 Legge n. 604/1966 per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Il mancato rispetto dei requisiti formali e procedurali del licenziamento genera in capo al lavoratore una tutela indennitaria c.d. debole, nel senso che l’ammontare dell’indennità è ridotto rispetto a quella previste nelle ipotesi disciplinate nei commi precedenti.
L’accertamento del vizio formale o procedurale dell’atto di recesso produce l’effetto di risolvere il rapporto di lavoro e attribuisce al lavoratore il diritto a un’indennità onnicomprensiva, e satisfattiva dei profili previdenziali, determinata tra un minimo di 6 e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
Il vizio formale non impedisce, però, un esame sotto l’aspetto sostanziale, qualora il giudice accerti, sulla base della domanda del lavoratore, che vi è anche un difetto di giustificazione del licenziamento: in tal caso troverà applicazione in alternativa la tutela reintegratoria con indennità limitata, o la tutela indennitaria forte. Al vizio procedurale viene in tal caso a sovrapporsi un vizio sostanziale (giustificazione insussistente o inadeguata), in conseguenza del quale trovano applicazione le correlate sanzioni, ma l’onere della prova grava, almeno in parte, sul lavoratore.
7.3 Il contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti (d.lgs. n. 23/2015)
La riforma del 2015, c.d. Jobs Act, ha introdotto un nuovo regime sanzionatorio contro i licenziamenti illegittimi che, come si è già avuto modo di osservare, ha determinato un generale abbassamento rispetto all’assetto precedente, a sua volta oggetto di intervento riformatore del 2012, delle tutele previste per il lavoro subordinato.
Incrementando il tasso di flessibilità in uscita, la novella realizza una significativa marginalizzazione della tutela reintegratoria, sostituita da una tutela solo indennitaria parametrata sulla mera anzianità di servizio del lavoratore, da cui discende la denominazione “tutela crescente”, che diventa quindi ora la regola, relegando la tutelare reintegratoria a mera eccezione.
Il regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo introdotte dal legislatore nel 2015 trova applicazione nei confronti di tutti i lavoratori, fatta eccezione per i dirigenti, assunti con contratto a tempo indeterminato successivamente alla data di entrata in vigore del menzionato decreto legislativo, ovvero il 7 marzo 2015.
La data di nuova assunzione, tuttavia, non sempre fa da discrimine poiché rientrano nell’ambito di applicazione del nuovo regime di tutela anche i lavoratori assunti in precedenza con contratto a tempo determinato o di apprendistato e il cui rapporto sia stato convertito in rapporto a tempo indeterminato successivamente alla predetta data, come anche i lavoratori assunti prima della detta data , nel caso in cui il datore di lavoro, in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente all’entrata in vigore del decreto, abbia superato la soglia minima dei 15 dipendenti, ossia abbia raggiunto il requisito dimensionale richiesto dall’art. 18 Stat. Lav. (art. 1, co. 2-3, d.lgs. n. 23/2015).
Per rilievo unanime, la nuova disciplina non trova applicazione nei confronti dei pubblici dipendenti, ai quali risulta applicabile la nuova disciplina del lavoro nel settore pubblico emanata con il d.lgs. n. 175/2017 in attuazione della legge delega n. 124/2015 (c.d Riforma Madia), che modifica in più parti il d.lgs. n. 165/2001; più controversa la sua applicazione ai rapporti speciali di lavoro, nei quali i lavoratori non sono classificati in operai, impiegati e quadri ai sensi della disciplina codicistica e per i quali vigono diverse discipline in materia di cessazione dei rapporti di lavoro (si pensi al personale navigante del settore marittimo di aeronautico, ai lavoratori domestici e agli atleti professionisti).
Sul lato datoriale, diversamente dalla precedente novella del 2012, la cui scelta strategica è stata quella di lasciare in vigore la disciplina della cosiddetta tutela obbligatoria e di mantenere inalterata la summa divisio di tutele rappresentata dal criterio dimensionale30, la nuova disciplina sanzionatoria trova applicazione nei confronti di tutti i datori di lavoro, a prescindere dal dato dimensionale e numerico, e a prescindere dall’oggetto dell’attività esercitata, coinvolgendo anche le cosiddette organizzazioni di tendenza (art. 9, comma 2, d.lgs. n. 23/2015).
In continuità con la riforma avviata dalla legge del 2012, ricalcandone l’impalcatura, anche il nuovo regime sanzionatorio presenta una quadripartizione delle tutele, a cui se ne aggiunge una quinta se si considera l’ulteriore regime della piccola impresa: la tutela reintegratoria piena; la tutela reintegratoria con indennità limitata; la tutela indennitaria forte o standard; e la tutela indennitaria ridotta.
Presupposti e contenuti delle diverse tipologie di tutela sono tuttavia diversi.
a) La tutela reale piena: licenziamento discriminatorio, nullo e orale (art. 2 d.lgs. n. 23/2015)
Nel nuovo impianto sanzionatorio, la tutela reintegratoria piena, a cui si è già fatto parzialmente cenno nei paragrafi precedenti, trova applicazione nei confronti di tutti i datori di lavoro, imprenditore o non imprenditore, indipendentemente dalla motivazione formale addotta e dal numero di dipendenti impiegati, nelle ipotesi di licenziamento nullo perché discriminatorio ai sensi dell’articolo 15 Stat. Lav., ovvero nullo perché riconducibile agli altri casi di nullità “espressamente”31 previsti dalla legge o al licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma orale, ovvero ancora, innovando rispetto alla previsione dell’art. 18 Stat. Lav., al licenziamento del quale sia stato accertato in giudizio il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore (anche se disabile assunto obbligatoriamente ai sensi della Legge n. 68/1999)32.
Il contenuto di questo tipo di tutela resta quello già previsto dalla legge del 2012 con una sola differenza: la retribuzione sulla cui base viene commisurata l’indennità risarcitoria, che si aggiunge alla reintegra, non è più l’ultima retribuzione globale di fatto, bensì l’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, che potrà risultare inferiore rispetto alla retribuzione globale di fatto.
Entrambe le disposizioni, dunque, limitano ai licenziamenti nulli e inefficace la tutela reale e ne ripropongono la disciplina prevista dal previgente articolo 18 , introducendo qualche modifica che la lascia però in sostanza immutata.
b) La tutela reale ridotta: i licenziamenti disciplinari per giusta causa e giustificato motivo soggettivo (art. 3, co. 2, D. Lgs. n. 23/2015)
Al di fuori dei casi di licenziamento discriminatorio, nullo o orale, l’applicazione della tutela reintegratoria è prevista ora esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento disciplinare, per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento.
La nuova disposizione segna un netto distacco rispetto alla analoga previsione dell’art. 18 Stat. Lav., giacchè accoglie chiaramente una nozione di fatto puramente materiale, che prescinde da tutti gli elementi di contesto, qui rilevanti solo ai fini della ricognizione della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo, e soprattutto prescinde dalla valutazione compiuta non solo in sede giudiziale ma anche in sede collettiva circa la proporzione tra licenziamento intimato e la gravità della mancanza commessa, posto che manca nel testo letterale ogni riferimento alle disposizioni dei contratti collettivi prescriventi per lo stesso fatto contestato una sanzione solo conservativa.
Resta, tuttavia, ad opinione di parte della dottrina, e benché il legislatore abbia volutamente omesso un richiamo alla contrattazione collettiva, l’obbligo del datore di lavoro di applicare il codice disciplinare aziendale, e con esso la proporzionalità tra infrazione e sanzione, e resta in ogni caso, e anche prescindendo dalle valutazioni espresse dalla contrattazione collettiva, la considerazione secondo cui un licenziamento disciplinare motivato da una condotta del lavoratore, che pur essendo un fatto sussistente, fosse di scarsissimo rilievo, sarebbe così platealmente sproporzionato da sconfinare nell’uso arbitrario del potere di licenziamento.
Rimane altrettanto ferma, in attesa di qualche ulteriore riscontro giurisprudenziale che consenta di approfondire la riflessione, l’interpretazione della Corte di Cassazione secondo cui nel campo delle infrazioni e relative sanzioni disciplinari, per essere sussistente il fatto contestato deve necessariamente avere rilevanza disciplinare (Cass. n. 20540/2015), rilievo che include valutazioni di ordine soggettivo, nella misura in cui è disciplinarmente rilevante solo un inadempimento imputabile al lavoratore, e nel rapporto di lavoro sono imputabili al lavoratore solo gli inadempimenti riconducibili a sua colpa o dolo.
In dette ipotesi di accertamento di illegittimità del licenziamento per essere stata dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto contestato, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore, al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, in ogni caso non superiore, per il periodo precedente alla pronuncia, a 12 mensilità, oltre al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, senza applicazione di sanzioni per l’ammissione contributiva.
Dall’ indennità risarcitoria così individuata, dovrà essere dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, ovvero quanto egli avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro (ai sensi dell’art. 4, co. 1, Legge n. 181/2000); il lavoratore potrà, comunque, sempre optare per l’indennità sostitutiva della reintegrazione, pari a 15 mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto.
c) La tutela indennitaria forte (o standard): le altre ipotesi di licenziamento disciplinare e per giustificato motivo oggettivo (art. 3, co. 1, d.lgs. n. 23/2015)
In tutti gli altri casi in cui il recesso è dichiarato illegittimo perché privo degli estremi del giustificato motivo soggettivo, oggettivo o della giusta causa, il nuovo regime sanzionatorio prevede la sola tutela economica.
Secondo il disposto dell’articolo 3, comma 1, laddove il fatto contestato sussiste ma non integri i requisiti della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo o oggettivo, il rapporto di lavoro si estingue dalla data del licenziamento e il lavoratore vanta il solo diritto ad ottenere la condanna del datore di lavoro al pagamento di un’indennità onnicomprensiva, non assoggettata a contribuzione previdenziale (ma all’imposta fiscale) di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 4 e non superiore a 24 mensilità, elevata nel minimo a 6 e nel massimo a 36 mensilità dal D.L. n. 87/2018, convertito in Legge n. 96/2018.
Questa forma di tutela, considerate le ipotesi ormai del tutto eccezionali in cui trova applicazione la tutela reale, è destinata a divenire la forma ordinaria e generale di tutela contro il licenziamento illegittimo: essa infatti si applica in tutte le ipotesi di insussistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento c.d. economico – rispetto al quale è ormai perentoria l’esclusione del diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro – e, presumibilmente, nella maggior parte dei licenziamenti disciplinari dichiarati illegittimi ma di cui non sia stata dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto contestato.
Tale tutela è per il resto analoga alla tutela indennitaria prevista dall’art. 18, co. 5, Stat. Lav., atteso che l’invalidità del licenziamento non incide sull’effetto di estinzione del rapporto di lavoro, che pure si produce, con la differenza che la quantificazione dell’indennizzo non è più affidata alla discrezionalità del giudice, ma ancorata al criterio dell’anzianità di servizio del prestatore di lavoro entro un minimo ed un massimo legislativamente stabilita, una sorta di costo fisso predeterminato del licenziamento.
L’importo dell’indennizzo fissato dalla disposizione de qua è apparso da subito ridotto e inadeguato rispetto all’analoga tutela indennitaria prevista dall’art. 18 Stat. Lav., a tal punto da sollevare dubbi di costituzionalità della nuova disciplina dei licenziamenti, di cui si è fatta portavoce la giurisprudenza di merito33, interrogando la Corte costituzionale sull’eventuale contrasto di tale disciplina con l’artt. 3, 4, 35, 117 e 136 Cost., in quanto l’importo dell’ indennità risarcitoria prevista dalla novella del 2015 non riveste carattere compensativo nè dissuasivo, ed ha peraltro conseguenze discriminatorie, dacchè opera una disparità di trattamento tra lavoratori assunti con contratto di lavoro a tutele crescenti e lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015; in quanto attraverso essa al diritto al lavoro, valore fondante della Carta costituzionale, viene attribuito un controvalore monetario irrisorio e fisso; ed in quanto, infine, la sanzione per il licenziamento illegittimo appare inadeguata rispetto a quanto statuito dalla fonti sovranazionali (Carta dei diritti fondamentali europea e Carta sociale europea).
Con l’importante sentenza n. 194/2018, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 3, co. 1, d.lgs. n. 23/2015, sia nel testo originario sia nel testo modificato dal D.L. n. 87 /2018 (c.d. Decreto Dignità) nella parte in cui fissa un meccanismo uniforme, rigido ed automatico per il calcolo dell’indennità prevista per il licenziamento ingiustificato (carente di giusta causa, giustificato motivo soggettivo o oggettivo) dei lavoratori assunti a decorre dal 7 marzo 2015, limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”, ritenendo la previsione di una misura risarcitoria uniforme, indipendente dalle peculiarità e della diversità delle singole vicende dei licenziamenti intimati dal datore di lavoro, comportare un’indebita omologazione di situazioni che possono essere, e di fatto sono, tra loro diverse.
Secondo il Giudice delle leggi, il parametro prescelto infatti, costituito dall’anzianità di servizio del lavoratore – in quanto uniforme per tutti i dipendenti, a prescindere dalla loro particolare situazione personale, e troppo rigido –, non è in grado né di garantire un personalizzato ed adeguato ristoro del danno effettivamente patito dal lavoratore, né di costituire adeguato strumento di dissuasione per il datore di lavoro dal commettere l’illecito; è, viceversa, conforme a Costituzione, sempre nel ragionamento della Corte, il limite massimo delle 24 mensilità (poi divenute 36 con il cd. “Decreto Dignità”) fissato dalla norma all’importo dell’indennità, considerata nella sua prioritaria dimensione risarcitoria, in quanto sotto questo aspetto essa attua un adeguato contemperamento degli interessi in conflitto.
In ossequio a quanto statuito dalla Corte costituzionale, pertanto, l’indennità risarcitoria deve essere quantificata dal giudice nel rispetto dei limiti, minimo e massimo, dell’intervallo di legge, tenuto conto dei criteri desumibili dall’evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti, ma innanzitutto dell’anzianità di servizio a cui seguono, secondo una lettura costituzionalmente orientata, il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell’attività economica, il comportamento e la condizione delle parti.
Per quanto la pronuncia dichiari incostituzionale solo l’art. 3, c. 1, d.lgs. 23/2015 nella parte in cui fissa il sistema di calcolo dell’indennità per il licenziamento ingiustificato, senza estendere le sue valutazioni ad altre norme del decreto stesso che utilizzano le identiche modalità di calcolo, non si dubita che essa è destinata ad estendere i suoi effetti anche su queste, e più in generale ad avere in prospettiva un importante impatto di sistema sull’intero impianto del d.lgs. 23/2015, se non addirittura sull’intera disciplina dei licenziamento.
d) La tutela indennitaria debole: i licenziamenti viziati nella forma e nella procedura (art. 4 d.lgs. n. 23/2015)
Una tutela meramente indennitaria è prevista, infine, per i licenziamenti affetti da vizi formali, fatta eccezione per il licenziamento privo di forma (cfr. supra) o procedurali, vale a dire intimati in violazione dei requisiti di motivazione (art. 2 Legge n. 604/1966) o della procedura prevista per i licenziamenti disciplinari dall’art. 7 Stat. Lav34.
Ai sensi dell’art. 4, in tali ipotesi, in continuità con l’analoga previsione dell’art. 18, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità onnicomprensiva, esente da contribuzione, ridotta alla metà, ossia pari ad una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 2 e non superiore a 12 mensilità, sempre che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore non accerti la sussistenza del presupposto per l’applicazione delle più forti tutela della reintegrazione piena o della reintegrazione con indennità limitata.
e) Piccole imprese e organizzazioni di tendenza (art. 9 d.lgs. n. 23/2015)
Una disciplina specifica, di natura esclusivamente risarcitoria, è infine prevista per i lavoratori assunti successivamente al 7 marzo 2015 da datori di lavoro che non raggiungano i requisiti dimensionali richiesti per l’applicazione delle previsioni di cui all’art. 18 Stat. Lav., ovvero i 15 o i 60 dipendenti riferiti rispettivamente all’unità produttiva o all’impresa.
Detta disciplina è caratterizzata dall’ espressa esclusione della reintegrazione con indennità limitata alle 12 mensilità, pertanto anche in caso di licenziamento disciplinare nel quale il fatto contestato al lavoratore risulti insussistente, questi non avrà diritto alla reintegrazione ma alla sola tutela economica, di importo dimezzato rispetto alle indennità risarcitoria stabilite nei casi di applicazione della tutela risarcitoria forte e della tutela risarcitoria debole (art. 9, co. 1 D. Lgs. 23/2015).
Così, in caso di licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro e condanna il datore al pagamento di un’ indennità di importo pari ad una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in ogni caso non superiore a sei mensilità; in caso, invece, di licenziamento intimato in violazione del requisito di motivazione o della procedura prevista per i licenziamenti disciplinari, ferma l’estinzione del rapporto di lavoro, la condanna sarà il pagamento di un’ indennità di importo pari a 0,5 mensilità dell’ultima retribuzione utile il calcolo del TFR per ogni anno di servizio e in misura non superiore a sei mensilità.
Per quanto riguarda le organizzazioni di tendenza, va, infine, evidenziata l’importante innovazione dell’estensione, ad opera dell’art. 9, co. 2 d.lgs. n. 23/2015, ad esse del regime di tutela reale ridotta per i licenziamenti disciplinari dei lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015, sino ad ora ammessa solo per i licenziamenti discriminatori o determinati da motivo illecito.
§ 8 Profili processuali e nuovi strumenti conciliativi
Un cenno, a completamento del presente lavoro, si ritiene opportuno fare riguardo all’istituto processuale introdotto dalla novella del 2012 per le controversie aventi ad oggetto licenziamenti ricadenti nell’ambito di applicazione del nuovo art. 18 Stat. Lav. (c.d. Rito Fornero), e sulla nuova speciale procedura di conciliazione espressamente dedicata alla prevenzione del contenzioso relativo ai licenziamenti, contenuta nell’art. 7, d.lgs. n. 23/2015 (c.d. offerta reale di conciliazione).
La Legge n. 92/2012 ha introdotto nel nostro ordinamento processuale un rito speciale per le controversie sui licenziamenti intimati da datori di lavoro aventi i requisiti dimensionali richiesti per l’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 18 Sta. Lav., con l’espresso obiettivo di ridurre i tempi del processo e la definizione delle controversie di impugnazione dei licenziamenti.
Detto rito speciale, applicabile alle controversie instaurate successivamente al 18 luglio 2012 aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti, anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro, è altresì ammesso anche rispetto ad altre domande, purchè “fondate sugli identici fatti costitutivi”.
Il rito, pertanto, non si applica ai licenziamenti ingiustificati rientranti nell’ambito di applicazione della legge n. 604/1966 e, pertanto, non si applica neppure ai licenziamenti nei cui confronti tale legge, per sua testuale esclusione, non opera, quindi al licenziamento del dirigente, al licenziamento in periodo di prova, al recesso ante tempus dal contratto di lavoro a tempo determinato, nonché agli altri contratti ai quali accede, direttamente o indirettamente, un termine, come somministrazione e lavoro a progetto.
Rispetto a tale nuovo rito, è stata esclusa la sua alternatività rispetto al ricorso ex articolo 414 cpc, sulla considerazione che il rito speciale è predisposto nell’interesse di entrambe le parti del giudizio all’abbreviazione della durata del processo, conseguentemente il giudice eventualmente adito ex art. 414 cpc, dovrà disporre la separazione della domanda relativa all’applicazione dell’articolo 18, affinché sia trattata con il rito speciale previsto dalla Legge del 2012.
Il rito speciale costa di tre possibili gradi di giudizio: il primo grado introdotto con ricorso al tribunale in funzione del giudice di lavoro è articolato in due eventuali fasi, una prima fase sommaria e una seconda eventuale fase di opposizione a cognizione piena di fronte al medesimo tribunale; il secondo grado è un reclamo, vale a dire un appello innanzi alla Corte d’appello; avverso la sentenza d’appello è ammesso il ricorso per Cassazione.
Nella prima fase, definibile come fase sommaria o urgente, sulla falsariga del procedimento cautelare ex art. 700 cpc, la controversia viene introdotta con ricorso al tribunale in funzione di giudice del lavoro, territorialmente competente secondo le ordinarie regole processuali del rito speciale del lavoro; l’udienza deve essere fissata non ho oltre 40 giorni dal deposito del ricorso, che, una volta avvenuto, costituisce dies a quo per l’assegnazione, da parte del giudice di un termine per la notifica del ricorso e del decreto, non inferiore a 25 giorni prima dell’udienza, nonchè del termine non inferiore a 5 giorni prima della stessa udienza per la costituzione del resistente.
In questa prima fase, il giudice procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili richiesti dalle parti o disposti d’ufficio e provvede, con ordinanza immediatamente esecutiva, all’accoglimento o al rigetto della domanda. L’efficacia esecutiva del provvedimento non può essere sospesa o revocata fino alla pronuncia della sentenza con cui il giudice definisce l’eventuale giudizio di opposizione, da instaurarsi entro trenta giorni dalla comunicazione dell’ordinanza innanzi al medesimo Tribunale.
La eventuale seconda fase dell’unico giudizio di primo grado è costituita da quella di opposizione, da proporre con ricorso avente il contenuto di cui all’art. 414 cpc, nella quale il giudizio si espande a cognizione piena, tanto che il giudice, che potrà essere il medesimo della fase sommaria35, deve procedere, omessa ogni formalità, agli atti di istruzioni ammissibili e rilevanti, ovvero ad una istruzione esauriente.
Contro la sentenza di primo grado può essere proposto reclamo/appello davanti alla Corte d’appello con ricorso da depositare, a pena di decadenza, entro 30 giorni dalla comunicazione, o dalla notificazione se anteriore, della sentenza conclusiva del primo grado di giudizio, ove non sono ammessi nuovi mezzi di prova e nuovi documenti, salvo che non siano indispensabili ai fini della decisione, ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli in primo grado per causa ad essa non imputabile; a deposito avvenuto, la Corte fissa l’udienza di discussione nei successivi 60 giorni e può sospendere l’efficacia della sentenza reclamata se ricorrono gravi motivi.
La Corte procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione ammessi e provvede con sentenza, all’accoglimento o al rigetto della domanda; la sentenza completa di motivazione deve essere depositata in cancelleria entro dieci giorni dall’udienza di discussione.
Contro la sentenza d’appello può essere proposto ricorso per Cassazione entro 60 giorni dalla comunicazione o dalla notificazione, se anteriore, oppure, in mancanza di entrambe, nel termine di sei mesi dal deposito della sentenza.
Il nuovo rito speciale per le controversie in materia di licenziamento è stato oggetto di molte critiche e la sua applicazione ha dato luogo ad un imponente giurisprudenza, ma, ad oggi, esso costituisce ormai diritto vigente in via di esaurimento, stante il venir meno della sua operatività, ed applicabilità, per espressa previsione legislativa, ai licenziamenti dei lavoratori regolati dalla legge di riforma del 2015.
A tali lavoratori torna, dunque, ad applicarsi l’ordinario rito del lavoro come regolato dal Codice di procedura civile e conseguentemente, venute meno le incompatibilità funzionale del rito Fornero con le disposizioni in materia di procedimenti d’urgenza, anche l’art. 700 cpc.
Ai lavoratori assunti con contratto di lavoro a tutele crescenti, da ultimo, e quindi soggetti alla nuova disciplina, l’art. 6 d.lgs. n. 23/2015 riserva una nuova forma di conciliazione, la cui espressa finalità è quella di evitare il giudizio, ferma in ogni caso la possibilità per le parti di addivenire ad ogni altra modalità di conciliazione prevista dalla legge.
La novità consiste nella possibilità offerta al datore di lavoro di evitare il giudizio di impugnazione del licenziamento, offrendo al lavoratore licenziato, che abbia già impugnato il licenziamento, una somma di denaro entro i termini di impugnazione stragiudiziale, ovvero 60 giorni dalla ricezione della comunicazione in forma scritta del licenziamento, purchè ciò avvenga in una delle sedi protette di cui all’art. 2113 c.c. e art. 76 Legge n. 183/2010, ovverosia le sedi della conciliazione sindacale, amministrativa o giudiziaria, nonché quelle delle commissioni di certificazione.
L’importo offerto dal datore di lavoro non costituisce reddito imponibile ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche – e qui evidentemente riposano le speranze di successo dell’istituto in questione – e non è assoggettato a contribuzione previdenziale, e deve essere pari, nel suo ammontare, ad una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a 18 mensilità, modificate in aumento dal D.L. n. 87/2018 ed elevate a 3 nel minimo e a 27 mensilità nel massimo.
L’offerta deve avvenire presso una delle anzidette sedi protette, mediante consegna al lavoratore di un assegno circolare, che ne garantisce la effettiva copertura, la cui accettazione da parte del lavoratore comporta l’estinzione del rapporto di lavoro alla data del licenziamento e la rinuncia all’impugnazione dello stesso, anche qualora essa sia già stata proposta.
Come è evidente, la conciliazione consiste in uno scambio tra una somma di denaro e la chiusura tombale di ogni possibile controversia sul licenziamento, una soluzione che può rivelarsi molto conveniente per il lavoratore, vista la ormai residuale previsione di ottenere dal giudice la reintegrazione nel posto di lavoro e stante la modesta entità dell’indennità risarcitoria prevista in caso di licenziamento ingiustificato, soggette peraltro al prelievo fiscale.
Molti dubbi sono stati, tuttavia, espressi intorno al termine individuato dal legislatore per attivare la sede protetta ed offrire la somma a titolo conciliativo, ed in particolare rispetto alla decorrenza di questo dalla comunicazione del licenziamento, poiché si osservato che, stante la verosimile impugnazione dell’atto di recesso da parte del lavoratore in prossimità della scadenza di tale termine, ed eventualmente della sua ricezione da parte del datore di lavoro oltre tale termine, in tal modo sarebbe negato in radice all’impresa la possibilità di avvalersi dello strumento conciliativo in ragione del mero ritardo da parte del prestatore di lavoro nell’impugnazione del licenziamento.
Più ragionevole sarebbe stato prevedere la decorrenza del termine decadenziale per attivare la procedura conciliativa a far data dall’eventuale impugnazione del licenziamento, quale strategia di risposta del datore di lavoro ad un eventuale attività impugnatoria del lavoratore, piuttosto che rimettere tale possibilità alla mera scelta del se e quanto impugnare l’atto espulsivo da parte del lavoratore.
Onde evitare che lo sconto fiscale, infine, possa essere ottenuto con riguardo a transazioni relative ad ulteriori questioni controversie che possono essere risolti unitamente o comunque nella stessa sede della conciliazione stragiudiziale, il legislatore precisa che le eventuali somme pattuite nella stessa sede conciliativa a chiusura di ogni altra pendenza derivante dal rapporto di lavoro sono soggette all’ordinario regime fiscale.
1 Per dimissioni in bianco si intende una pratica assai diffusa consistente nel far firmare al lavoratore o alla lavoratrice le proprie dimissioni in anticipo al momento dell’assunzione, per poi completarle, con l’apposizione della data, all’occorrenza, magari in occasione di un infortunio, una malattia, un comportamento sgradito o di una gravidanza.
2 Secondo l’art. 1628 del c.c. del 1865 (figlio di omologhe disposizioni del Codice Napoleonico) nessuno poteva porsi all’altrui servizio che a tempo e per una determinata impresa. Si tratta di una regola che ha al suo interno un’ovvia affermazione di libertà che spezza i vincoli di origine feudale. Senonché, tale principio, calato nel contesto economico industriale, si prestava alla facile obiezione di garantire una libertà solo apparente ed una solo formale parità delle parti agli effetti della cessazione del vincolo obbligatorio.
3 Corte Cost. sentenza n. 45 del 9 giugno 1965.
4 Il riferimento è all’art. 24 Carta Sociale Europea e all’art. 30 Carta dei Diritti fondamentali della Unione Europea.
5 Si tratta della Legge n. 183/2010 (c.d. Collegato lavoro), che è intervenuta essenzialmente sul versante processuale, riducendo i termini per l’impugnazione del licenziamento, e della Legge n. 148/2011, il cui art. 8 ha introdotto la possibilità per la contrattazione collettiva di prossimità di derogare, con efficacia erga omnes, agli standard normativi e collettivi in alcune materie, tra le quali compare quella delle “conseguenze del recesso del rapporto di lavoro”.
6 Prima della riforma del 2012, la comunicazione del licenziamento poteva anche non contenere l’indicazione dei motivi o della causa addotti a giustificazione, essendo rimessa al lavoratore la facoltà di richiederli entro quindici giorni dalla comunicazione del recesso datoriale: in tal caso, il datore di lavoro era obbligato a comunicare i motivi per iscritto entro sette giorni dalla richiesta stessa, pena l’inefficacia del licenziamento.
7 App. Firenze 5 luglio 2016 ha qualificato conforme all’art. 2 Legge n. 604/1966 il licenziamento comunicato via sms.
8 Corte Cost. 23 novembre 1994 n. 398.
9 Cass. civ. sez. lav. 5 settembre 2016 n. 17589.
10 Corte Cost. 30 novembre 1982 n. 204; Cass. SS.UU. 1° giugno 1987 n. 4823, in RGL, 1987, II, p. 219.
11 La dottrina, nella sua elaborazione, parte dalla norma dell’art. 1564 cod.civ., che pur riferita alla risoluzione del contratto della somministrazione, la ritiene di portata generale e applicabile a tutti i contratti di durata.
12 In tal senso, recentemente, Cass. civ. sez. lav. 7 marzo 2017 n. 5693.
13 Un esempio significativo è fornito dalla casistica relativa allo svolgimento di altre attività durante il periodo di assenza per malattia; dopo molte oscillazioni, la giurisprudenza è venuta consolidandosi intorno all’orientamento espresso dalla Cassazione secondo cui, pur non sussistendo il divieto di prestare attività lavorativa in proprio o presso terzi, può rappresentare una grave violazione del dovere di correttezza di cui all’art. 1175 del c.c., che a sua volta integra una giusta causa di licenziamento, lo svolgimento di un’attività che evidenzia la simulazione della malattia ovvero comprometta o ritardi la guarigione.
14 Molte le pronunce giurisprudenziali in tal senso. Si veda da ultimo ….
15 Una controversa ipotesi di scarso rendimento è quella connessa alla cosiddetta eccessiva morbilità del lavoratore, vale a dire eccessiva frequenza di assenza per malattia, che l’orientamento giurisprudenziale prevalente ha escluso dal novero delle ipotesi riconducibili ad un giustificato motivo soggettivo, essendo la malattia un evento protetto dall’ ordinamento e le ripetute assenza dal lavoro non inquadrabili in inadempimenti imputabile al lavoratore (Cass. 14758/2013).
16 Tale orientamento è rinvenibile nella giurisprudenza che si è ripetutamente pronunciata oltre che sulle ipotesi del superamento del periodo di comporto per malattia del lavoro del lavoratore, su altre questioni di impossibilità sopravvenuta, tra le quali spiccano quella della carcerazione preventiva e quella della sopravvenuta inidoneità fisica o psichica del lavoratore allo svolgimento delle mansioni cui è addetto (cfr. Cass. n. 22536/2008).
17 In tal senso cfr. Cass 7 dicembre 2016 n. 25201.
18 Si tratta delle pronunce nn. 2072, 2073 e 2074 del 1980.
19 Come giustamente rilevato dalla Cassazione nella sentenza n. 6575 /2016, “l’articolo 3 Legge n. 108/1990 dispone che il licenziamento determinato da ragioni discriminatorie – ai sensi dell’art. 4 della legge 15 luglio 1966 n. 604 e dell’art. 15 della legge 20 maggio 1970 n. 300 – è nullo indipendentemente dalla motivazione adotta, con ciò evidenziando, da un lato, una netta distinzione della discriminazione dall’area dei motivi ,dall’altro, la idoneità della condotta discriminatoria a determinare di per sè sola la nullità del licenziamento”.
20 Corte Cost. 10 febbraio 1993 n. 46.
21 Cass. civ. sez. lav. 3 dicembre 2015 n. 24648.
22 La soluzione maggiormente diffusa nella pratica è la contestuale ratifica per iscritto da parte dello stesso lavoratore della impugnativa predisposta e sottoscritta dal legale incaricato, entrambe portate a conoscenza del datore di lavoro entro il termine di decadenza prescritto.
23 Vale la pena di ricordare che, nel regime previgente, dopo la tempestiva impugnazione stragiudiziale, l’azione in giudizio doveva essere proposta nel termine di prescrizione quinquennale ai sensi dell’art. 1442 c.c., mentre nessun termine era invece applicabile nel caso di licenziamenti nulli o inefficaci.
24 In tal senso recentemente la Suprema Corte, secondo cui “la lettera della disposizione che combina inefficacia dell’impugnazione extragiudiziale non seguita da tempestiva azione giudiziale, dimostra come dal primo dei due atti debba decorrere il termine per compiere il secondo e non dalla fine dei 60 giorni concessi per la impugnazione stragiudiziale”. (Cass. 20 marzo 2015, n. 5717).
25 Cfr. Cass. sez. lav. 21 marzo 2013 n. 4299.
26 Cass. sez. lav. 13 aprile 2005.
27 Secondo l’orientamento prevalente in giurisprudenza, invero, la revoca del licenziamento poteva produrre effetto solo se accettata dal lavoratore: in sostanza la revoca del licenziamento era configurata come proposta contrattuale che, se accettata dal lavoratore, produceva l’effetto di ripristinare ex nunc il rapporto di lavoro, senza tuttavia eliminare gli effetti dannosi prodotti da licenziamento illegittimo, e senza impedire al lavoratore di chiedere l’indennità sostitutiva della reintegrazione (Cass. 17 novembre 2016, n. 23435).
28 Cass. civ. sez. lav. 13 ottobre 2015 n. 20540.
29 Così Trib. Foggia 1 aprile 2014.
30 Il campo di applicazione dell’art. 18 Stat. Lav., da parte datoriale, è definito dal comma 8, come modificato dalla legge n. 92/2012, secondo cui il regime di tutele da esso previsto è applicabile ai datori di lavoro imprenditori e non imprenditori che complessivamente occupano più di 60 dipendenti, comunque l’attività sia organizzata, alle unità produttive (sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo) con più di 15 dipendenti, anche se costituiscono articolazioni organizzative di imprese o organizzazioni con meno di 60 dipendenti, ai datori di lavoro imprenditori e non imprenditori che, nell’ambito dello stesso comune, occupano più di 15 dipendenti e alle imprese agricole, che nel medesimo ambito territoriale, occupano più di 5 dipendenti anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti. Non vi rientrano le c.d. organizzazioni di tendenza.
31 La lettura dell’ avverbio espressamente che pare dominare, sia in dottrina che in giurisprudenza, è quella che ritiene necessario, ma anche sufficiente, che la regola di esercizio del potere di licenziamento sia espressa e specifica, con la tipizzazione ex ante da parte del legislatore ordinario delle condizioni che non legittimano l’esercizio del potere di recesso, e, pertanto, esclude dall’ambito di applicazione della tutela reale piena tutte quelle ipotesi di licenziamento virtualmente nulli, vale a dire intimato in violazione di norme imperative che non prevedono in modo esplicito la sanzione della nullità.
32 L’inserimento di tale fattispecie ha non poco disorientato i primi commentatori, creando un dubbio interpretativo circa l’esatta collocazione di questa fattispecie di recesso che, da ipotesi qualificata di ingiustificatezza del licenziamento per motivi oggettivi, è transitata nell’ambito delle discriminazioni per disabilità, da cui il rafforzamento e la generalizzazione della sanzione che passa dalla tutela reale ad effetti risarcitori limitati per i soli lavoratori delle aziende medio grandi di cui alla legge Fornero, alla tutela reale ad effetti risarcitori pieni per tutti i lavoratori di cui al Jobs Act.
33 Trib. Roma, ordinanza del 26 luglio 2017.
34 La riforma del 2015 ha espressamente abrogato per i lavoratori assunti con contratto di lavoro a tutele crescenti, il preventivo tentativo di conciliazione di cui all’art. 7 Legge n. 604/1966, introdotto dalla Legge n. 92/2012 per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
35 Come chiarito dalla Corte Cost. nella pronuncia n. 78/2015.
Fonte: Altalex